di don Donato Palminteri

Trentun anni fa, ad appena due mesi dall’ordinazione sacerdotale, Monsignor Carmelo Ferraro, all’epoca vescovo di Agrigento, mi destinò a esercitare il mio ministero a Lampedusa, scoglio benedetto, estremo lembo d’Europa. Tanti anni dopo, posso dire che per me fu un luogo provvidenziale perché lì conobbi padre Giuseppe Policardi e con lui potei muovere i primi passi della mia vita sacerdotale, in un luogo allora considerato remoto, privo ancora di alcuna visibilità mediatica. Fu un periodo talmente ricco e fecondo che ancora oggi mi riempie il cuore di gratitudine e di nostalgia. E tutt’ora sono convinto che da Dio non potevo ricevere dono migliore. Gli anni vissuti accanto a padre Policardi a Lampedusa per me sono stati una vera grazia! Accanto a lui ho imparato molte cose della vita della Chiesa, della vita sociale, della relazione col Signore. Tante esperienze vissute grazie a lui mi hanno formato, sia dal punto di vista umano che pastorale.

Con la discrezione che lo contraddistingueva, padre Policardi non ha mai negato un sorriso ad alcuno, mentre le sue mani profondevano carità. Mentre come Chiesa stiamo vivendo il Sinodo, tempo di ascolto di laboratori e cantieri, mi viene da pensare che quel sacerdote abbia qualcosa da insegnarci. Nel suo fecondo e non facile ministero, non ha mai smesso di ascoltarne il grido degli ultimi. Per me e per molti anni, con la sua testimonianza di vita e di fede è stato un faro che indicava la rotta giusta. E il suo esempio mi è tornato alla mente quando Papa Francesco, dieci anni fa, volle fare il suo primo viaggio apostolico a Lampedusa in pellegrinaggio. Tutti ricordiamo la sua omelia. Lampedusa non è solo mare e turisti, è un luogo di vita, è profezia, dove Dio ci parla. È approdo, porta, chiave, ponte che dà speranza a molti, spesso reso però un cimitero del Mediterraneo a causa dell’indifferenza umana, molto più forte della pandemia.

Del lungo ministero di padre Policardi si potrebbero ricordare tanti aspetti, perché fu un sacerdote vero, dal sapore evangelico, di quelli che hanno “l’odore delle pecore”. Ne ricordo l’instancabile attività di maestro e di educatore: per tante generazioni di ragazzi e giovani, fu un punto di riferimento, coltivando la crescita umana, culturale e cristiana di quanti oggi sono adulti, padri e madri, uomini e donne impegnati nella vita sociale ed ecclesiale. Era profondamente devoto alla Madonna: custodì e abbellì il Santuario a lei dedicato, lavorando materialmente anche con le proprie mani, per lasciare a noi oggi questo speciale “polmone verde” che valorizza non solo la natura, stimolandoci ad "aver cura della casa comune e della madre terra", ma anche dello spirito. In quel luogo benedetto e santo, sotto lo sguardo di Maria, quasi custodito dall’ombra della Madre, si è lasciato modellare da Dio in un cammino di santità, attirando molti fedeli a compiere lo stesso cammino. E ancora ricordo la sua attenzione verso i malati. Anche lui lo era, un brutto tumore gli aveva tolto il dono della parola. Eppure non ha mai smesso mai smesso di comunicare con gli scritti - che premurosamente faceva giungere alla sua gente anche a Lione, dove spesso soggiornava per le dolorose cure -, e con la testimonianza della sua vita. Prima di partire per le sue cure, e anche al rientro dall’ospedale, anche se aveva la febbre alta e i piedi doloranti, non si risparmiava per portare il conforto della fede agli ammalati, da lui considerati “carne di Cristo”. Lui stesso ormai ne era diventato carne, scarnito dalla malattia, ma confortato dalla sempre fresca passione per il Vangelo.

Nel mio breviario custodisco gelosamente uno dei suoi scritti: «Vi ringrazio per tutto il bene che mi avete voluto, per tutte le preghiere fatte per me e anche per le sofferenze che sopportate assieme a me. Come il padre soffre per i figli così anche voi, soffrite per il padre». 

A venticinque anni dalla sua morte, per volontà del popolo lampedusano, le sue spoglie sono state portate dal cimitero dell’Isola al Santuario, amo pensare per la sua testimonianza di santità che ha vissuto per 49 anni tra la sua gente. Quella santità sottolineata da Papa Francesco nell’esortazione apostolica Gaudete et exsultate, vissuta nella ordinarietà della vita, con quelli della porta accanto, uomini e donne che lavorano per portare a casa un pezzo di pane, attraverso gesti di tenerezza per i malati, i bambini, i migranti che già si intravedevano, e i meno fortunati.