Perché la Chiesa non ammette l’uso del preservativo per far fronte al flagello dell’Aids?

Lettera firmata


La lotta contro il flagello dell’Aids segue strade diverse. La prima, denominata “sanitaria”, affida al profilattico la prevenzione dal contagio. La seconda, che si può qualificare “ideologica”, è propagandata dai fautori del “sesso libero” che diventa anche “sicuro” con il profilattico. Ma non è proprio così. La sua diffusione, infatti, non accompagnata da oggettiva informazione sulla reale efficacia, espone le persone a contrarre e a trasmettere la malattia. La terza, di indirizzo “etico-educativo”, si distanzia nettamente dalla precedente e propone l’umanizzazione e responsabilizzazione del comportamento sessuale.

«La soluzione del fenomeno dell’Aids», così Benedetto XVI alla domanda di un giornalista, «può trovarsi in una umanizzazione della sessualità, cioè in un rinnovo spirituale e umano che conduce a un nuovo modo di comportarsi l’uno con l’altro, [...] a un comportamento giusto nei confronti del proprio corpo e di quello dell’altro».
A tale proposta si obietta che, nelle nostre società, si pratica un costume sessuale disordinato e, quindi, l’uso del preservativo ha almeno il merito di ridurre il danno. Al contrario, ha il demerito di favorire la sessualità disordinata e, quindi, la diffusione dell’Aids: libertà sessuale e lotta all’Aids non sono conciliabili.

A un costume sessuale disordinato, la morale della Chiesa contrappone un costume ordinato da praticare. Utopia? È, invece, un ideale normativo che sa confrontarsi con la situazione, la comprende e anche la tollera in situazioni estreme, come male minore, ma non la giustifica, perché legittimare significa impedire di crescere. L’uscita dal flagello dell’Aids richiede ben altro che il preservativo. Richiede pensiero e azione di persone, singole e associate in varie forme di volontariato, che uniscono la solidarietà all’esperienza maturata sul campo.