Tengo tra le mani un rosa. È rossa, scarlatta. L’ho rubata da un cortile, poco fa. Si protendeva oltre il cancello, verso la strada e verso di me. L’ho vista da lontano. Pareva una brace tra i rovi. Mi sono avvicinata. Con la lama ho reciso lo stelo. L’ho rubata.

La madre di mia madre mi ha insegnato che i fiori non si comprano, mai. Che i fiori sono di Dio. Ricordo le sue mani. Si muovevano svelte. Raccoglieva spighe di grano non sue, albicocche, foglie argentate di liquirizia, ortensie. Diceva

«Piante e sassi, animali, minerali,

sono come le stelle e le acque, di tutti».

Diceva

«Le cose della natura

appartengono solo a Dio».

E io la osservavo camminare all’ombra dei pini o dei cedri, simile a un uccello buono, pacifico. Poi d’improvviso, la scorgevo muoversi, spostarsi, raggiungere qualcosa di appena sbocciato, reciderlo, raccoglierlo. In casa, non aveva vasi. Legava le ortiche in fasci. Con spaghi e li di cotone faceva nodi attorno agli steli. Aveva chiodi alle pareti, cardi viola appesi a testa in giù. Le sue stanze ricordavano un erbario. Mutavano, al mutare delle stagioni. Quando teneva le finestre aperte, d’estate, non vi era differenza tra il dentro e il fuori. Quando ero bambina, andavo insieme a lei. A marzo, raccoglievamo le viole. Ad aprile, i grappoli fragili del glicine. A maggio, i ori con le spine. Con lei il mondo era un campo di prodigi a cui attingere. D’estate, lei sceglieva il frutto più maturo e, dopo averlo tagliato, lo posava accanto al mio capo...



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