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In una Istanbul piovosa, avvolta dal vento umido, avevo oltrepassato la cancellata che separa la chiesa di Santa Maria Draperis dalla caotica e brulicante Istiklal Caddesi, per virare a destra lungo la profonda scalinata che nasconde agli occhi del conformismo islamico turco, la facciata dello spazio cristiano. Li ho suonato, senza pretese e attese, il campanello del convento francescano. Ad aprire era venuto lui, il guardiano. Il gesto più naturale e semplice del mondo. Aveva spalancato la porta e senza conoscermi, senza neanche sapere il mio nome, mi aveva accolto nel convento, offerto il thé con i dolci della tradizione, con l’unico aggancio di un amico comune, padre Pino Noto, minore come lui. Mi aveva avvisato: è un uomo amabile e generoso, senza nessuna affettazione.
Così avevo scoperto quell’uomo straordinario, padre Ruben Tierrablanca Gonzales, che qualche anno dopo, nel 2016, sarebbe diventato da responsabile della comunità dei minori, vicario apostolico dei cattolici della capitale turca, amministratore apostolico di Costantinopoli dei greci e vescovo titolare di Tubernuca. Oggi è nell’eternità. Il Covid l’ha portato via in poco meno di un mese. Di ritorno da un viaggio in Messico, dove era nato 68 anni fa, aveva scoperto di essere positivo: l’ingresso nell’ospedale universitario di Koc, l’aggravamento, la sedazione e poi il cuore, grande, immenso, che non ha retto al tentativo di ridurre l’ossigenazione.
La notizia della sua scomparsa ha addolorato tutti gli appassionati sostenitori del dialogo interreligioso ed ecumenico. Il primo a piangerlo il Patriarca Ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo I, che lo additava come “il mio pastore francescano”, sedotto anche lui dalla semplicità con cui padre Ruben, si poneva nel complesso e articolato mosaico delle chiese turche. Da vescovo aveva sempre considerato Bartolomeo, la più alta autorità cristiana dell’area, ponendosi in un ruolo di subalternità che senza togliere nulla alla propria dignità episcopale, amplificava ed enfatizzava i rapporti con il mondo ortodosso. In un approccio alla questione ecumenica, dinamico e totale. In molti lo ricordano arrivare senza nessuna inibizione al Phanar, indossare i paramenti e partecipare alle celebrazioni comuni con estrema naturalezza. In dialogo della vita fatto di amicizia e rispetto. Ma non solo.


Lo straniante e inconsueto innesto della natura messicana, gioviale e diretta, nell’ambiente musulmano turco, gli aveva permesso di creare legami anche con questa particolare variante dell’islamismo. Soprattutto con la corrente Sufi. Ruben non era un dogmatico, sapeva cosa voleva dire vivere immersi in una cultura impregnata dal Corano e da secoli di supremazia. Non era un intellettuale, ma aveva la consapevolezza che le Crociate erano alle spalle, e che i cristiani turchi avevano già pagato troppo lo scontro di civiltà. “Bisogna andare incontro all’uomo” ripeteva, “l’approccio è la presenza rispettosa”, la “testimonianza senza pretese o progetti”. Assistere il poco rimasto della comunità cattolica turca, senza lasciare nessuno fuori. Né le centinaia di immigrati filippini e cinesi che erano tornati a popolare le chiese del paese negli ultimi anni, né i profughi siriani, in fuga dagli orrori dell’Isis, bisognosi di tutto, ultimi tra gli ultimi. Nella Turchia di Erdogan, dove era sempre più complicato sfuggire ai tentativi di islamizzazione portati avanti dal sultano, al martirio della marginalità e dell’insignificanza, ricordava le ferite del popolo turco. La condivisione di sofferenze e privazioni.
Era un pastore vero, umile, appassionato. Ma soprattutto un prete lieto, disposto al sorriso, dal volto illuminato da una fede profonda. “I cattolici turchi e coloro che hanno avuto l'opportunità di lavorare con lui lo ricordano con gratitudine", ha scritto ieri sera la conferenza episcopale turca annunciando la morte del suo presidente dal 2018. La scomparsa di Mons. Tierrablanca lascia un vuoto che solo l’avvenimento del prossimo Natale riesce a colmare.



