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Napoli torna a essere lo scenario di una serie televisiva dove protagonisti sono ragazzi in cerca di riscatto che vivono in contesti sociali difficili. Ma stavolta, al contrario di Mare fuori, di cui si sta preparando la sesta stagione, si tratta di una storia vera: la rinascita di un quartiere difficile grazie all’opera instancabile e visionaria di un sacerdote. La serie, Noi del Rione Sanità, diretta da Luca Miniero (già regista di Benvenuti al Sud) partita Rai 1 il 23 ottobre per tre serate e ha come protagonista proprio uno dei volti di Mare fuori, l’attore napoletano Carmine Recano, che qui interpreta un sacerdote ispirato alla figura di don Antonio Loffredo.
La serie inizia da quando don Giuseppe, il protagonista, dopo un’esperienza come cappellano di un carcere, per le sue idee troppo rivoluzionarie viene trasferito nel Rione Sanità, caratterizzato da una forte presenza della criminalità organizzata che arruola nelle sue fila anche molti ragazzi. Un quartiere da un lato malfamato, ma dall’altro ricco di storia, con dieci chiese e un patrimonio di catacombe sotterranee da valorizzare. Ed è da qui che don Giuseppe parte per ridare una speranza ai suoi parrocchiani con la collaborazione di una suora, di un sacrestano e delle mamme stanche di vedere i loro figli in galera o morti ammazzati.
Inizialmente la serie doveva intitolarsi Come un padre. E un certo atteggiamento paterno verso i ragazzi è quello che hanno in comune il suo comandante del carcere minorile di Mare fuori e don Giuseppe…
«Il comandante Massimo è più rude, anche per il ruolo che svolge, e poi ha a che fare con ragazzi che hanno già la vita segnata. Mentre don Giuseppe cerca di impedire che diventino dei criminali e più che un padre si pone con loro come una guida. Per questo alla fine è stato scelto un titolo più collettivo, perché si tratta di una serie corale, che non punta solo sulla figura del sacerdote, ma sulla forza di un’intera comunità».
Ha conosciuto don Antonio Loffredo?
«Sì, e devo dire che la mia paura più grande era non deluderlo, anche perché nella mia carriera è la prima volta che interpreto un personaggio realmente esistito, e in questo caso pure vivo e vegeto».
Don Antonio riesce a tirare fuori i ragazzi dalla strada anche grazie al teatro. In città sono tante le iniziative sociali che puntano sul coinvolgimento dei giovani nel mondo dello spettacolo. Forse perché i napoletani hanno da sempre una forte vocazione per la recitazione?
«Sicuramente Napoli vanta una lunga tradizione teatrale e poi cinematografica. Ma credo piuttosto che il teatro sia stato spesso scelto come strumento educativo perché recitare aiuta a entrare nei panni degli altri e a sviluppare l’empatia. E anche a conoscersi più profondamente».
Lei che rapporto ha con la chiesa e la fede?
«Sono stato educato secondo la religione cattolica, e continuo a credere in Dio anche se non sono praticante. E mi viene spontaneo rivolgermi a Lui nei momenti difficili, quando sento di avere bisogno di un aiuto più grande».
È cresciuto a Secondigliano, altro quartiere popolare di Napoli. Conosceva il Rione Sanità prima dell’arrivo di don Loffredo?
«Certo, ed era davvero molto diverso da come è ora. E ho un legame particolare anche con quello che ha fatto don Loffredo, perché a un certo punto ha affidato la direzione del laboratorio teatrale a un mio caro amico. Molti dei ragazzi che hanno ispirato i protagonisti della serie li ho conosciuti, e li ho poi ritrovati oggi nelle vesti di guide turistiche».
Lei come ha iniziato a recitare?
«Per caso: ho accompagnato un amico a un casting, sono stato notato dal regista Aurelio Grimaldi che mi fatto esordire in Tv. Subito dopo ho ottenuto il ruolo da protagonista nel film Terrarossa. Poi mi sono trasferito a Roma, avrei voluto studiare in una scuola di recitazione, ma sono arrivati un ruolo dietro l’altro e ho potuto prendere solo qualche lezione privata».
Come è iniziato il sodalizio con Ferzan Özpetek?
«Mi ha notato proprio in Terrarossa, e mi ha voluto in Le fate ignoranti. Poi con lui ho continuato a lavorare in diversi film, fino all’ultimo, Diamanti, dove ho un ruolo piccolo ma molto intenso grazie proprio alla sua capacità di far trapelare l’intensità di un personaggio solo dagli sguardi».
Qualche anticipazione su Mare fuori 6?
«Posso solo dire che la maggior parte dei ragazzi ha terminato il proprio percorso nel carcere minorile, quindi ci saranno nuovi personaggi e nuove storie. Io sono grato del successo che mi ha dato questa serie, e non ho paura di restare legato a quel personaggio, perché recitavo già da molti anni e posso continuare a farlo anche se la serie dovesse finire. Ma quando i ragazzi mi fermano per strada chiamandomi “comandante” e dicendomi che vorrebbero un padre come me, capisco che anche un ruolo di finzione può contribuire a colmare quel vuoto affettivo e di valori che hanno dentro. E spero che anche con la figura di don Giuseppe possa essere lo stesso».



