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«È la prima volta che vedo una fiction in vita mia», ci confessa don Antonio Loffredo, l’ex parroco del Rione Sanità a cui è ispirata la figura di don Giuseppe nella serie di Rai 1, «e ho capito l’abilità degli sceneggiatori nel tenere incollati gli spettatori a una storia. Pure io, che quelle vicende le ho vissute, nella loro versione romanzata ero curioso di vedere gli sviluppi di tutti i personaggi». Don Antonio Loffredo, che è stato parroco al Rione Sanità dal 2001 al 2022 (sostituito poi da don Luigi Calemme), ci spiega come molti elementi sia della figura del sacerdote sia della sua opera nel quartiere rispecchiano fedelmente la sua vicenda, anche perché gli sceneggiatori hanno attinto dai racconti scritti dai suoi ragazzi e raccolti in un volume in origine intitolato Vico esclamativo, che ora esce in una nuova veste e con lo stesso titolo della serie, Noi del Rione Sanità (con la prefazione dell’arcivescovo di Napoli, il cardinale Domenico Battaglia), ed è pubblicato con la casa editrice San Gennaro, una delle tante iniziative da lui create all’interno della Fondazione San Gennaro (tra cui anche una palestra per la boxe, «una richiesta dei ragazzi», precisa don Antonio).
«Al di là di certe parti più romanzate per esigenze sceniche, la serie è perfettamente fedele allo spirito con cui ho dato il via alla rinascita della Sanità: la mia fiducia nei ragazzi e il ruolo di un’intera comunità, in primis le mamme. Era un quartiere complicato, ma ciò che mi aveva più colpito era la mancanza di speranza che qualcosa potesse cambiare e invece abbiamo dimostrato che è possibile fare cose impossibili, e quello del Rione Sanità spero sia un modello da esportare anche in altre realtà non solo napoletane. E ciò mi fa essere fiducioso nel fatto che anche la camorra prima o poi smetterà di esistere, perché porta la morte dentro, e sarà quella a distruggerla».
Il Rione Sanità è diventato una meta turistica, grazie alla cooperativa “La paranza”, dove sono i ragazzi stessi che fanno da guide (al momento ne sono impiegati 70), e hanno fatto riscoprire un patrimonio artistico che era stato dimenticato, tra cui le catacombe. «Quello stesso modello socio-culturale ora lo stiamo portando avanti nel Duomo di Napoli con la Fondazione Napoli C’entro di cui sono vicepresidente. È nato il progetto Museo diocesano diffuso per valorizzare luoghi chiave della cultura e della spiritualità della nostra città e creare nuove opportunità di lavoro, sempre con il coinvolgimento dei ragazzi, finora 60».
Don Antonio Loffredo aveva ispirato già un personaggio, don Luigi, nel film di Mario Martone Nostalgia, era interpretato da Francesco Di Leva, che per il ruolo vinse il David di Donatello come miglior attore non protagonista. «Il film era tratto dal romanzo omonimo di Ermanno Rea, che è stato per me un grande amico, malgrado avessimo idee opposte. Trascorse a casa una settimana: si fece raccontare tutto quello che facevo per i ragazzi e lo raccontò a suo modo nel libro. Sulle contraddizioni e la grande voglia di reagire di Napoli consiglio il documentario di RaiPlay Posso entrare. An ode to Naples di Trudie Styler, la moglie di Sting, dove troviamo le vere storie di alcuni dei ragazzi della serie tv Noi del Rione Sanità. Come Enzo Pirozzi, il figlio di un camorrista condannato all’ergastolo. Era uno dei “miei” ragazzi, ora è un regista e un attore, e dice: “Sono 25 anni che non sento l’odore di mio padre”, perché lo va a trovare in carcere, ma solo vedendolo attraverso un vetro».
Pensando al suo di padre, che lo voleva imprenditore come lui e che deluse quando a 25 anni si fece prete, dopo un’adolescenza inquieta e ribelle, don Antonio dice: «In fondo, pur rispondendo a un altro capo, cioè Dio, sono diventato a mio modo un imprenditore, in linea con quella economia circolare di cui parlava papa Francesco, e che attinge a tutte le risorse di un territorio per farlo crescere nel Bene per tutti».



