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Un trionfo annunciato, quello di La La Land alla prossima notte degli Oscar. La pellicola sulla nostalgia del musical firmato dal giovane regista Damien Chazelle, dopo la Coppa Volpi per la migliore attrice a Emma Stone (leggete la nostra intervista sul numero 5 di Famiglia Cristiana) e sette Golden Globe, si presenterà il 26 febbraio al galà del Dolby Theatre di Los Angeles come strafavorito grazie alle 14 nomination appena conquistate. Un record uguagliato in passato solo da Eva contro Eva e Titanic, titoli che hanno fatto la storia del cinema. Per carità, il film interpretato da Ryan Gosling e dalla Stone è delizioso, amaro, ben pensato e altrettanto ben girato. Di un romanticismo mai esagerato sulla scia delle interpretazioni dei due protagonisti in delicato equilibrio tra grazia, nostalgia e disillusione (una aspirante attrice sballottata tra umilianti provini, l’altro pianista jazz fuori moda). L’eccessivo clamore potrebbe però suscitare attese esagerate negli spettatori che, da oggi, possono andare a vederlo nelle sale. E quando ci si attende troppo, la delusione è sempre in facile agguato dietro l’angolo. Il consiglio è di andare a vedere La La Land con la mente sgombra da giudizi e pregiudizi. Soprattutto con orecchie e occhi ben aperti, così da godere appieno di uno spettacolo intelligente ed elegante che fa di musiche e coreografie lo spunto per mille pensieri.
D’altronde, non è certo colpa di Chazelle e del suo magnifico cast se la concorrenza agli Oscar è quest’anno un po’ sotto tono. Manca in realtà il vero antagonista, la lotta a due che spacca la critica, il titolo spinto dal pubblico contro ogni pronostico. A debita distanza, con 8 nomination, coltivano fondate speranze di vittoria il fantascientifico ma noiosetto Arrival di Denis Villeneuve (di incontri con gli alieni se ne son visti di migliori) e il toccante Moonlight di Barry Jenkins. Quest’ultimo in particolare, in quanto romanzo di formazione di un giovane gay nero nei sobborghi di Miami, potrebbe raccogliere qualche statuetta “politically correct” come ripicca hollywoodiana allo sfacciato razzismo del neo presidente Donald Trump. Quando la politica però si mescola allo show business, si rischia sempre di fare un cattivo servizio al pubblico. Staremo a vedere. In tema di puro spettacolo, per quanto sempre in odor di pacifismo (essendo la storia vera di un obiettore di coscienza che durante la guerra mondiale nel Pacifico salvò decine di commilitoni feriti), potrebbe spuntarla invece La battaglia di Hacksaw Ridge, firmata con la solita abilità registica da Mel Gibson. Le 6 nomination sono il segno tangibile che Hollywood ha ormai perdonato le sue mattane sia nella vita privata che nelle pubbliche prese di posizione. Insomma, dopo l’Oscar vinto nel 1996 come regista di Braveheart, la prossima notte delle stelle potrebbe essere per Gibson quella della pubblica riconciliazione con lo star system. Sarà di certo quella del record del maggior numero di nomination collezionate in carriera (ben 20) per l’eterna Meryl Streep. La sua prova in Florence di Stephen Frears, vestendo i panni di un’eccentrica ereditiera con la passione per la lirica nella New York anni Quaranta, è un piccolo gioiello d’ironia e di bravura. Riuscirà a portarsi a casa l’ennesima statuetta malgrado la concorrenza della rampante Emma Stone? Difficile, ma il record del maggior numero di nomination è già storia.
Fanno rumore, piuttosto, le assenze di due titoli annunciati come probabili protagonisti della kermesse. Il primo è certamente Sully di Clint Eastwood (con Tom Hanks nella divisa del pilota che salvò decine di passeggeri facendo ammarare il suo aereo sul fiume Hudson). Ma ancora più clamorosa appare l’esclusione di Silence di Martin Scorsese, la bella pellicola sulle persecuzioni patite dai missionari cristiani nel Giappone del XVII secolo. Un film forse troppo rigoroso e uscito troppo tardi per trovare il tempo di far breccia nelle menti e nei cuori degli oltre 6 mila giurati dell’Academy. Un’ultima curiosità poi sul possibile outsider della 89° edizione dei premi Oscar: noi puntiamo come miglior attore non protagonista su Michael Shannon che in Animali notturni, il raffinato e bellissimo thriller di Tom Ford, dà prova definitiva delle sue doti interpretative.
Dulcis in fundo, la candidatura di Fuocoammare di Gianfranco Rosi nella cinquina in corsa per l’Oscar al miglior documentario. Dopo l’Orso d’oro vinto a Berlino (consegnatogli, tra l’altro, proprio da Meryl Streep con un toccante discorso) e decine di altri premi razziati in giro per il mondo, potrebbe essere la volta buona della consacrazione anche Oltreoceano per Rosi la cui formazione cinematografica, tra l’altro, è avvenuta negli anni Ottanta proprio a New York. Nessuno meglio di lui può gettare un ponte tra cinema Usa e il nuovo cinema italiano che, in un novello neorealismo, punta oggi la cinepresa sul dramma dei migranti, dei profughi morti in mare e degli eroici sforzi di chi corre il loro aiuto in barba alle latitanze del potere ossia i pescatori e gli abitanti di quella Lampedusa vero cuore dell’Europa. E’ bello che a sventolare il tricolore nella notte hollywoodiana sia un film così.



