PHOTO
Un padre un po’ imbroglione, una madre che ha fatto della distanza emotiva la grammatica degli affetti, infine due fratelli affiatatissimi, per i quali dire addio ai genitori e “andare avanti” è una prova quasi impossibile. Sono questi i protagonisti, i “centri di gravità”, di Father Mother Sister Brother, il film di Jim Jarmusch premiato con il Leone d'Oro all’82/a Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia.
La pellicola - interpretata, tra gli altri, da Tom Waits, Adam Driver, Charlotte Rampling, Cate Blanchett - è costruita su tre storie che esplorano i rapporti fra genitori e figli, raccontando di una distanza quasi siderale tra le generazioni: sia nell’episodio del padre che in quello della madre, i figli arrivano a fare una visita (una breve visita) dopo un tempo che pare inconcepibile, dopo anni che non si vedono di persona. Non ci sono state evidenti rotture, in queste famiglie. Solo, ognuno ha preso la sua strada e si è diventati estranei.
Jarmusch ci porta allora in questi interni familiari, salotti riordinati e tavole apparecchiate ad arte, e ci costringe a “stare” in un’atmosfera fatta di silenzi imbarazzati, di verità mai rivelate, di piccoli egoismi e ricatti emotivi.


Uno sguardo sul particolare che, in qualche modo, si solleva su una fatica universale: quella della comunicazione tra genitori e figli, del riuscire a far cadere la maschera delle aspettative reciproche, del riuscire a dirsi “ti voglio bene” anche quando si è rimasti delusi o si crede di non essere all’altezza. Ma non c’è solo infelicità, in questi episodi, anzi: c’è molta ironia, e c’è la poesia di alcuni indizi che segnalano una storia comune, di essere cresciuti secondo gusti simili (genitori e figli si sorprendono di indossare gli stessi colori). E poi, c’è l’episodio finale dei fratelli che, nell’assenza dei genitori – mancati improvvisamente per un incidente – e muovendosi in un appartamento vuoto, ormai venduto, rievocano un tempo di grazia infantile, perdendosi tra disegni e giocattoli che parlano di amore ricevuto, e di una madre e un padre ri-scoperti attraverso la distanza, ormai implacabile, della morte. Dire addio al tempo dell’infanzia, a una cantina piena di mobili e oggetti, diventa allora un compito quasi insormontabile ma necessario, per diventare davvero adulti.
C’è assenza sostanziale di azione ma molta poesia, in questo film. Una prospettiva che guarda alle famiglie (felici o infelici a modo loro, ci insegna Tolstoj) con lucidità e ironia, mettendoci di fronte al rischio del vuoto esistenziale. Che è sempre dietro l’angolo. Ma forse, è proprio dalle famiglie che bisogna partire per combatterlo.
Benedetta Verrini (Centro internazionale studi famiglia)



