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Il problema è del disabile o della società? I poeti vedono cose che sfuggono alle persone comuni e così Pierluigi Cappello ridefinisce subito l’approccio alla questione.
Voce fra le più importanti della nostra scena poetica, friulano, 44 anni, si è aggiudicato i più importanti premi letterari. È paralizzato su una sedia a rotelle da quando, a 16 anni, un incidente in moto si portò via l’amico alla guida e costrinse lui a una serie di interventi chirurgici e a una lunga fase di rieducazione.
La disabilità cambia la percezione di sé?
«Il termine disabilità non mi piace, è troppo generico. Seguendo Pasolini, sono più interessato al caso singolo. Con questa parola intendiamo una condizione di difficoltà, ma essere paraplegico in Svezia è molto diverso che esserlo in Italia. La difficoltà dell’individuo è sì pesante, ma è la società ad amplificarla. Se vivo in un contesto che mi preclude ogni possibilità di relazione con l’esterno, a malattia si aggiunge malattia. Nel nostro Paese in generale c’è carenza di comunicazione fra gli ospedali e i servizi sul territorio e la burocrazia complica tutto. Anziché tagliare gli insegnanti di sostegno, bisognerebbe potenziarli. Questo non è il posto più adatto per essere malati. Anzi, è un lusso: pensioni sociali e assegni di accompagnamento sono ridicoli. È evidente che la percezione di sé cambia in maniera radicale. Di colpo non sei più in grado di compiere le azioni naturali di tutti i giorni. È una frattura anche interiore. Si ha un’esatta percezione del limite, che si tramuta in una paradossale occasione di sviluppare una propria libertà».
L’handicap è solo perdita o anche acquisizione di qualcosa?
Qualsiasi crisi porta con sé un guadagno e una perdita. Dopo l’incidente non ho dovuto reinventarmi, perché ho potuto continuare a fare le cose che amavo: leggere i classici, studiare... Diverso è il caso di chi deve riedificarsi completamente. Ecco che lì diventa fondamentale il ruolo della società. Costanza, tenacia, intelligenza, sacrificio sono valori correnti? A me non pare. La difficoltà aumenta a causa dei modelli veicolati dai media, fondati sulla facilità di fruizione di qualsiasi cosa. Si pensa che a ogni problema ci sia rimedio: non è così, la vita corre su altri binari. Non siamo preparati alla sconfitta, la pubblicità non la prevede. Se siamo gracili è perché così ci ha plasmato la società».
La persona disabile è portata a conoscere più in profondità la condizione umana?
«Di fronte a condizioni estreme l’uomo deve affinare strategie di sopravvivenza, che contemplano la conoscenza di sé e l’analisi del mondo circostante. Sei messo alle strette e devi conoscerti meglio, in quanto solo così puoi sviluppare relazioni verso l’esterno».
Come porsi di fronte a un handicap dovuto a una malattia inspiegabile?
«Noi uomini siamo la linea di tensione fra due date, quella di nascita e quella di morte, al cui interno si dipana il senso dell’esistere. In queste circostanze estreme si può sviluppare il senso più alto dell’esistenza, fronteggiandola con la consapevolezza della vanità del tutto. E bisogna cercare di lenire le ferite lungo il percorso: qui torniamo al discorso di partenza, della società in cui viviamo. La crisi dell’Occidente e dell’Italia in particolare diventa evidente nelle scuole, negli ospizi, negli ospedali: lì si avverte lo scricchiolio della nostra società».



