«Mi addormento a Losanna e mi sveglio in Senegal. Ogni giorno è così, mi fa diventare pazzo», così Dia sintetizza la sorte degli immigrati irregolari in Svizzera che vengono forzatamente rimpatriati nel loro paese di origine e le cui storie sono raccontate nel documentario di Fernand Melgar Le monde est comme ça. Nel suo precedente lavoro, Vol spécial, il regista era entrato per nove mesi a Frambois (Ginevra), uno dei 28 centri di espulsione per sans-papiers dove ogni anno migliaia di donne e uomini vengono incarcerati per mesi senza processo né condanna. «Allora il nostro compito era di filmare senza intervenire. Un anno dopo, siamo andati a trovarli».
Nei racconti di tutti i protagonisti, torna la paura, mista all’umiliazione e al respiro che manca, del “vol spécial”, il “volo speciale” gestito dall’Ufficio federale della Migrazione (Ufm). Lo racconta Geordry: «Avevamo le mani legati con una grande catena, e anche i piedi. Avevamo un casco, non potevamo nemmeno fare gesti con la testa. È durato ore, senza acqua da bere e senza poter andare in bagno. Dicevano: “No, il regolamento lo vieta”». Dia ricorda l’umiliazione di indossare il pannolino, Julius come è diventato zoppo: durante il volo, ha rotto un ginocchio perché lo avevano legato troppo stretto. Del resto, deresponsabilizzazione di chi attua i rimpatri e deumanizzazione degli espulsi rendono possibile una pratica che finora ha provocato tre morti. Lo ha ben spiegato il direttore della compagnia Hello, che ha un accordo con la Confederazione per i voli speciali: «La fatturazione avviene come per ogni altro volo. Per me trasportare una squadra di calcio o dei richiedenti asilo in Nigeria è la stessa cosa!». Geordry era scappato dal Camerun «per salvare la pelle» dopo l’assassinio dei genitori, oppositori politici. In Svizzera, dove aveva chiesto asilo, tra corsi di formazione e lavori aveva fatto di tutto per integrarsi, «per comportarsi bene». Era diventato il badante del signor Favre, per lui come un padre, che aveva aiutato a non finire in casa di riposo. Poi arriva la sentenza della legge: «Niente prova che, se il richiedente rientrasse in Camerun, la sua vita sarebbe in pericolo».
Peccato che, una volta rimpatriato, Geordry sia stato arrestato per aver infangato all’estero l’onore del paese chiedendo asilo politico: 400 frustrate sotto la pianta del piede («Settimane intere senza riuscire a camminare»), manganellate, sette mesi di carcere in celle da venti metri quadrati per 15 persone, in cui era costretto a raccogliere gli escrementi con le mani. «Un calvario», per dirla con le sue parole. Si potrebbe pensare che il ritorno in patria porti almeno la gioia di riabbracciare la propria famiglia. Altro che gioia: vuol dire confrontarsi con il fallimento, la vergogna, la delusione per le speranze riposte, la richiesta di soldi. Wandifa, rispedito in Gambia, non sa cosa dire alla zia con cui è cresciuto che gli dice: «Il cibo costa tanto, i bambini devono andare a scuola. Quando eri in Svizzera, potevi aiutarci; da quando sei tornato, è tutto difficile». O come i genitori di Ragip, 40 anni, che gli chiedono conto di vent’anni passati in Svizzera, prima di essere rimpatriato in Kosovo. Poi, proprio mentre tenti di abbozzare un bilancio, vedi una bambina che ha la stessa età di tua figlia e ti rendi conto che più della metà della tua vita è rimasta oltre confine. Dei tre figli, Ragip ha in mano solo una fototessera: «Vivono nascosti, la bambina ha paura di andare a scuola».
Come succedeva fino agli anni Ottanta a 30mila bambini italiani, tecnicamente “clandestini” come i figli di Ragip, costretti a vivere nascosti in stanze sovraffollate nei cantoni svizzeri senza poter uscire neanche per andare a scuola o per correre in un prato. Anche Dia ha lasciato in Svizzera quattro bambini, oltre quindici anni di vita e il permesso di soggiorno perso per una svista. Trovare le risposte da dare al telefono è uno strazio: «“Papà perché non sei qui?”, è nove mesi che me lo chiedono. “Devi tornare papà”, “Mi manchi”, “Domattina ho una partita di calcio, devi venire a vedere la mia nuova squadra. Papà, ci sono i genitori di tutti e tu non ci sei”». «L’uomo vive là dov’è la sua vita», prova a dire Dia davanti alla telecamera di Melgar, ma poi si scioglie in lacrime: «Non è facile essere forte». «Le monde est comme ça», «Il mondo è così», canta un suo vicino di casa suonando la kora, il liuto senegalese. «È dura, altroché. È veramente dura. Non è facile per noi, capisci?», gli fa eco Wandifa dal Gambia.
Peccato che, una volta rimpatriato, Geordry sia stato arrestato per aver infangato all’estero l’onore del paese chiedendo asilo politico: 400 frustrate sotto la pianta del piede («Settimane intere senza riuscire a camminare»), manganellate, sette mesi di carcere in celle da venti metri quadrati per 15 persone, in cui era costretto a raccogliere gli escrementi con le mani. «Un calvario», per dirla con le sue parole. Si potrebbe pensare che il ritorno in patria porti almeno la gioia di riabbracciare la propria famiglia. Altro che gioia: vuol dire confrontarsi con il fallimento, la vergogna, la delusione per le speranze riposte, la richiesta di soldi. Wandifa, rispedito in Gambia, non sa cosa dire alla zia con cui è cresciuto che gli dice: «Il cibo costa tanto, i bambini devono andare a scuola. Quando eri in Svizzera, potevi aiutarci; da quando sei tornato, è tutto difficile». O come i genitori di Ragip, 40 anni, che gli chiedono conto di vent’anni passati in Svizzera, prima di essere rimpatriato in Kosovo. Poi, proprio mentre tenti di abbozzare un bilancio, vedi una bambina che ha la stessa età di tua figlia e ti rendi conto che più della metà della tua vita è rimasta oltre confine. Dei tre figli, Ragip ha in mano solo una fototessera: «Vivono nascosti, la bambina ha paura di andare a scuola».
Come succedeva fino agli anni Ottanta a 30mila bambini italiani, tecnicamente “clandestini” come i figli di Ragip, costretti a vivere nascosti in stanze sovraffollate nei cantoni svizzeri senza poter uscire neanche per andare a scuola o per correre in un prato. Anche Dia ha lasciato in Svizzera quattro bambini, oltre quindici anni di vita e il permesso di soggiorno perso per una svista. Trovare le risposte da dare al telefono è uno strazio: «“Papà perché non sei qui?”, è nove mesi che me lo chiedono. “Devi tornare papà”, “Mi manchi”, “Domattina ho una partita di calcio, devi venire a vedere la mia nuova squadra. Papà, ci sono i genitori di tutti e tu non ci sei”». «L’uomo vive là dov’è la sua vita», prova a dire Dia davanti alla telecamera di Melgar, ma poi si scioglie in lacrime: «Non è facile essere forte». «Le monde est comme ça», «Il mondo è così», canta un suo vicino di casa suonando la kora, il liuto senegalese. «È dura, altroché. È veramente dura. Non è facile per noi, capisci?», gli fa eco Wandifa dal Gambia.
Nei racconti di tutti i protagonisti, torna la paura, mista all’umiliazione e al respiro che manca, del “vol spécial”, il “volo speciale” gestito dall’Ufficio federale della Migrazione (Ufm). Lo racconta Geordry: «Avevamo le mani legati con una grande catena, e anche i piedi. Avevamo un casco, non potevamo nemmeno fare gesti con la testa. È durato ore, senza acqua da bere e senza poter andare in bagno. Dicevano: “No, il regolamento lo vieta”». Dia ricorda l’umiliazione di indossare il pannolino, Julius come è diventato zoppo: durante il volo, ha rotto un ginocchio perché lo avevano legato troppo stretto. Del resto, deresponsabilizzazione di chi attua i rimpatri e deumanizzazione degli espulsi rendono possibile una pratica che finora ha provocato tre morti. Lo ha ben spiegato il direttore della compagnia Hello, che ha un accordo con la Confederazione per i voli speciali: «La fatturazione avviene come per ogni altro volo. Per me trasportare una squadra di calcio o dei richiedenti asilo in Nigeria è la stessa cosa!». Geordry era scappato dal Camerun «per salvare la pelle» dopo l’assassinio dei genitori, oppositori politici. In Svizzera, dove aveva chiesto asilo, tra corsi di formazione e lavori aveva fatto di tutto per integrarsi, «per comportarsi bene». Era diventato il badante del signor Favre, per lui come un padre, che aveva aiutato a non finire in casa di riposo. Poi arriva la sentenza della legge: «Niente prova che, se il richiedente rientrasse in Camerun, la sua vita sarebbe in pericolo».
Peccato che, una volta rimpatriato, Geordry sia stato arrestato per aver infangato all’estero l’onore del paese chiedendo asilo politico: 400 frustrate sotto la pianta del piede («Settimane intere senza riuscire a camminare»), manganellate, sette mesi di carcere in celle da venti metri quadrati per 15 persone, in cui era costretto a raccogliere gli escrementi con le mani. «Un calvario», per dirla con le sue parole. Si potrebbe pensare che il ritorno in patria porti almeno la gioia di riabbracciare la propria famiglia. Altro che gioia: vuol dire confrontarsi con il fallimento, la vergogna, la delusione per le speranze riposte, la richiesta di soldi. Wandifa, rispedito in Gambia, non sa cosa dire alla zia con cui è cresciuto che gli dice: «Il cibo costa tanto, i bambini devono andare a scuola. Quando eri in Svizzera, potevi aiutarci; da quando sei tornato, è tutto difficile». O come i genitori di Ragip, 40 anni, che gli chiedono conto di vent’anni passati in Svizzera, prima di essere rimpatriato in Kosovo. Poi, proprio mentre tenti di abbozzare un bilancio, vedi una bambina che ha la stessa età di tua figlia e ti rendi conto che più della metà della tua vita è rimasta oltre confine. Dei tre figli, Ragip ha in mano solo una fototessera: «Vivono nascosti, la bambina ha paura di andare a scuola».
Come succedeva fino agli anni Ottanta a 30mila bambini italiani, tecnicamente “clandestini” come i figli di Ragip, costretti a vivere nascosti in stanze sovraffollate nei cantoni svizzeri senza poter uscire neanche per andare a scuola o per correre in un prato. Anche Dia ha lasciato in Svizzera quattro bambini, oltre quindici anni di vita e il permesso di soggiorno perso per una svista. Trovare le risposte da dare al telefono è uno strazio: «“Papà perché non sei qui?”, è nove mesi che me lo chiedono. “Devi tornare papà”, “Mi manchi”, “Domattina ho una partita di calcio, devi venire a vedere la mia nuova squadra. Papà, ci sono i genitori di tutti e tu non ci sei”». «L’uomo vive là dov’è la sua vita», prova a dire Dia davanti alla telecamera di Melgar, ma poi si scioglie in lacrime: «Non è facile essere forte». «Le monde est comme ça», «Il mondo è così», canta un suo vicino di casa suonando la kora, il liuto senegalese. «È dura, altroché. È veramente dura. Non è facile per noi, capisci?», gli fa eco Wandifa dal Gambia.
Peccato che, una volta rimpatriato, Geordry sia stato arrestato per aver infangato all’estero l’onore del paese chiedendo asilo politico: 400 frustrate sotto la pianta del piede («Settimane intere senza riuscire a camminare»), manganellate, sette mesi di carcere in celle da venti metri quadrati per 15 persone, in cui era costretto a raccogliere gli escrementi con le mani. «Un calvario», per dirla con le sue parole. Si potrebbe pensare che il ritorno in patria porti almeno la gioia di riabbracciare la propria famiglia. Altro che gioia: vuol dire confrontarsi con il fallimento, la vergogna, la delusione per le speranze riposte, la richiesta di soldi. Wandifa, rispedito in Gambia, non sa cosa dire alla zia con cui è cresciuto che gli dice: «Il cibo costa tanto, i bambini devono andare a scuola. Quando eri in Svizzera, potevi aiutarci; da quando sei tornato, è tutto difficile». O come i genitori di Ragip, 40 anni, che gli chiedono conto di vent’anni passati in Svizzera, prima di essere rimpatriato in Kosovo. Poi, proprio mentre tenti di abbozzare un bilancio, vedi una bambina che ha la stessa età di tua figlia e ti rendi conto che più della metà della tua vita è rimasta oltre confine. Dei tre figli, Ragip ha in mano solo una fototessera: «Vivono nascosti, la bambina ha paura di andare a scuola».
Come succedeva fino agli anni Ottanta a 30mila bambini italiani, tecnicamente “clandestini” come i figli di Ragip, costretti a vivere nascosti in stanze sovraffollate nei cantoni svizzeri senza poter uscire neanche per andare a scuola o per correre in un prato. Anche Dia ha lasciato in Svizzera quattro bambini, oltre quindici anni di vita e il permesso di soggiorno perso per una svista. Trovare le risposte da dare al telefono è uno strazio: «“Papà perché non sei qui?”, è nove mesi che me lo chiedono. “Devi tornare papà”, “Mi manchi”, “Domattina ho una partita di calcio, devi venire a vedere la mia nuova squadra. Papà, ci sono i genitori di tutti e tu non ci sei”». «L’uomo vive là dov’è la sua vita», prova a dire Dia davanti alla telecamera di Melgar, ma poi si scioglie in lacrime: «Non è facile essere forte». «Le monde est comme ça», «Il mondo è così», canta un suo vicino di casa suonando la kora, il liuto senegalese. «È dura, altroché. È veramente dura. Non è facile per noi, capisci?», gli fa eco Wandifa dal Gambia.


