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Nella vita di Zucchero, sacro e profano, alto e basso, sono sempre andati a braccetto. «Sono nato in una famiglia emiliana. Tutti erano “rossi”, ma guai se volava una bestemmia. Abitavamo proprio di fronte alla chiesa e io avevo il compito di portare tutti i giorni un secchio d’acqua dal pozzo a don Giovanni, da tutti chiamato don Tagliatella, non c’è bisogno di spiegare perché. Alla domenica, poi, mio zio “Guerra”, maoista, mi diceva: “Delmo, và a ciamà il pret” (Adelmo, va a chiamare il prete)».
«Io andavo da don Tagliatella, gli portavo le uova e poi lo invitavo a pranzo. Dopo aver mangiato, lui e “Guerra” si sedevano su una panchina a parlare di politica. Dopo un po’ iniziavano a urlare, finché il “don” se ne andava via furibondo. Ma la domenica dopo era di nuovo con noi. E nella sua chiesa ho imparato a suonare l’organo. Lui mi insegnava i canti della Messa, poi se ne andava e io suonavo i Procol Harum».
Questo amore per i contrasti si ritrova anche nel suo ultimo album, Black Cat. Registrato negli Stati Uniti, prodotto da tre grandi nomi della musica internazionale, Don Was, Brendan O’Brien e T Bone Burnett, si fregia della magica chitarra di Mark Knoper, mentre Bono degli U2 ha scritto il testo di una canzone. Ma il cuore del disco si trova «in una baracca che mi sono costruito vicino alla casa dove vivo, a Pontremoli. Lì ho allestito un piccolo studio di registrazione dove, con giovani musicisti italiani, le canzoni hanno preso forma».
Hai lanciato l’album con il singolo Partigiano reggiano. Ci sono stati partigiani nella tua famiglia?
«No, ma sono cresciuto con le storie che mi raccontavano i miei su queste figure mitiche che lottavano per il popolo. Con questa canzone ho voluto esprimere l’ideale di una umanità senza divisioni, un po’ come aveva fatto John Lennon con Imagine, in contrapposizione “al cielo che vomita la bestia umanica”, alle guerre, alla corruzione che vediamo tutti i giorni».
È vero che tuo padre faceva il parmigiano reggiano?
«Sì, ha iniziato in un piccolo caseificio, poi ha trovato lavoro in un consorzio dove si faceva la stagionatura del parmigiano reggiano. Lui doveva girare le forme, salendo su impalcature altissime: un lavoro massacrante. Una volta una gli cascò in testa e tornò a casa che sembrava un reduce di guerra, tanto che svenni per l’emozione».
Una canzone dell’album si intitola Ci si arrende. A cosa?
«Al tempo che passa, al fatto di non poter più trovare in te stesso quella sincerità, quella purezza che avevi da bambino e che rivedo in due ragazzini che si scambiano il loro primo bacio».
In Ti voglio sposare, invece, dici che “c’è una chiesa che ci perdona”. A cosa ti riferisci?
«All’idea romantica di trovare una persona che ti salva. Una persona a cui dici: ti voglio sposare perché domani chissà cosa succederà. Allora troviamo una chiesetta di campagna e un prete che ci perdona senza chiederci troppo».
Il testo di Streets of Surrender (SoS) è stato scritto da Bono. Com’è nata questa collaborazione?
«Sono andato a trovare Bono quando con gli U2 è venuto a Torino per un concerto. Lui in camerino mi ha chiesto se mi andava di improvvisare un duetto quella sera. Ho accettato e per sdebitarsi mi ha chiesto se poteva fare qualcosa per me. Avevo scritto una musica, gliel’ho lasciata, e dopo un po’ mi ha inviato un messaggio in cui diceva che dopo le stragi di Parigi gli era venuta l’ispirazione per un testo, aggiungendo che ne avrebbe parlato, ma solo come spunto di partenza per un discorso più universale il cui succo è: “Io non voglio combattere l’odio con l’odio. Tu puoi decidere se redimerti, se far del bene o far del male. In ogni caso, io ti do il mio amore”. E poi paragona Gesù bambino nato in una stalla ad Aylan, il piccolo siriano morto su una spiaggia turca».
Ti definisci un artigiano della musica, uno che non è in grado di scrivere una canzone in due minuti...
«A volte le canzoni nascono all’improvviso. Ricordo Overdose d’amore. Ero al mare, avevo appena litigato di brutto con mia moglie e ho pensato: “Ho bisogno d’amore per Dio, perché se no sto male...”. Ma non puoi stare fermo ad aspettare l’ispirazione. Inizio a suonare, a buttare qualche appunto e poi ci lavoro su, aggiungendo e scartando. Può passare anche molto tempo prima di arrivare a qualcosa di buono. Fare canzoni è davvero un mestiere».
Zucchero si ferma e dice che gli è venuta in mente una storia. «Qualche anno fa andavo spesso con le mie bambine in un posto di campagna. C’erano il fiume e una chiesa medievale tutta in pietra, bellissima e abbandonata. Mi sarebbe piaciuto tanto entrare, ma la porta era chiusa. Finché un giorno ci andai da solo con la mia moto, una Harley Davidson. Dopo aver letto un po’ stavo per tornare a casa, quando, quasi per gioco, provai a vedere se la chiave del lucchetto della moto apriva la porta della chiesa. Incredibilmente, andò proprio così. Da allora ci ripenso spesso». Sacro e profano, appunto.
«Io andavo da don Tagliatella, gli portavo le uova e poi lo invitavo a pranzo. Dopo aver mangiato, lui e “Guerra” si sedevano su una panchina a parlare di politica. Dopo un po’ iniziavano a urlare, finché il “don” se ne andava via furibondo. Ma la domenica dopo era di nuovo con noi. E nella sua chiesa ho imparato a suonare l’organo. Lui mi insegnava i canti della Messa, poi se ne andava e io suonavo i Procol Harum».
Questo amore per i contrasti si ritrova anche nel suo ultimo album, Black Cat. Registrato negli Stati Uniti, prodotto da tre grandi nomi della musica internazionale, Don Was, Brendan O’Brien e T Bone Burnett, si fregia della magica chitarra di Mark Knoper, mentre Bono degli U2 ha scritto il testo di una canzone. Ma il cuore del disco si trova «in una baracca che mi sono costruito vicino alla casa dove vivo, a Pontremoli. Lì ho allestito un piccolo studio di registrazione dove, con giovani musicisti italiani, le canzoni hanno preso forma».
Hai lanciato l’album con il singolo Partigiano reggiano. Ci sono stati partigiani nella tua famiglia?
«No, ma sono cresciuto con le storie che mi raccontavano i miei su queste figure mitiche che lottavano per il popolo. Con questa canzone ho voluto esprimere l’ideale di una umanità senza divisioni, un po’ come aveva fatto John Lennon con Imagine, in contrapposizione “al cielo che vomita la bestia umanica”, alle guerre, alla corruzione che vediamo tutti i giorni».
È vero che tuo padre faceva il parmigiano reggiano?
«Sì, ha iniziato in un piccolo caseificio, poi ha trovato lavoro in un consorzio dove si faceva la stagionatura del parmigiano reggiano. Lui doveva girare le forme, salendo su impalcature altissime: un lavoro massacrante. Una volta una gli cascò in testa e tornò a casa che sembrava un reduce di guerra, tanto che svenni per l’emozione».
Una canzone dell’album si intitola Ci si arrende. A cosa?
«Al tempo che passa, al fatto di non poter più trovare in te stesso quella sincerità, quella purezza che avevi da bambino e che rivedo in due ragazzini che si scambiano il loro primo bacio».
In Ti voglio sposare, invece, dici che “c’è una chiesa che ci perdona”. A cosa ti riferisci?
«All’idea romantica di trovare una persona che ti salva. Una persona a cui dici: ti voglio sposare perché domani chissà cosa succederà. Allora troviamo una chiesetta di campagna e un prete che ci perdona senza chiederci troppo».
Il testo di Streets of Surrender (SoS) è stato scritto da Bono. Com’è nata questa collaborazione?
«Sono andato a trovare Bono quando con gli U2 è venuto a Torino per un concerto. Lui in camerino mi ha chiesto se mi andava di improvvisare un duetto quella sera. Ho accettato e per sdebitarsi mi ha chiesto se poteva fare qualcosa per me. Avevo scritto una musica, gliel’ho lasciata, e dopo un po’ mi ha inviato un messaggio in cui diceva che dopo le stragi di Parigi gli era venuta l’ispirazione per un testo, aggiungendo che ne avrebbe parlato, ma solo come spunto di partenza per un discorso più universale il cui succo è: “Io non voglio combattere l’odio con l’odio. Tu puoi decidere se redimerti, se far del bene o far del male. In ogni caso, io ti do il mio amore”. E poi paragona Gesù bambino nato in una stalla ad Aylan, il piccolo siriano morto su una spiaggia turca».
Ti definisci un artigiano della musica, uno che non è in grado di scrivere una canzone in due minuti...
«A volte le canzoni nascono all’improvviso. Ricordo Overdose d’amore. Ero al mare, avevo appena litigato di brutto con mia moglie e ho pensato: “Ho bisogno d’amore per Dio, perché se no sto male...”. Ma non puoi stare fermo ad aspettare l’ispirazione. Inizio a suonare, a buttare qualche appunto e poi ci lavoro su, aggiungendo e scartando. Può passare anche molto tempo prima di arrivare a qualcosa di buono. Fare canzoni è davvero un mestiere».
Zucchero si ferma e dice che gli è venuta in mente una storia. «Qualche anno fa andavo spesso con le mie bambine in un posto di campagna. C’erano il fiume e una chiesa medievale tutta in pietra, bellissima e abbandonata. Mi sarebbe piaciuto tanto entrare, ma la porta era chiusa. Finché un giorno ci andai da solo con la mia moto, una Harley Davidson. Dopo aver letto un po’ stavo per tornare a casa, quando, quasi per gioco, provai a vedere se la chiave del lucchetto della moto apriva la porta della chiesa. Incredibilmente, andò proprio così. Da allora ci ripenso spesso». Sacro e profano, appunto.



