«Perché perder tempo a spiegare l’Antico Testamento, a interpretarlo per “giusticarlo” nelle sue pagine difficili e sconcertanti, quando abbiamo la limpida luce del Nuovo Testamento?». È la sintesi di uno dei tanti quesiti che mi sono stati rivolti, quando spiegavo i libri dell’Antico Testamento, dato che molti sapevano che quello era anche il mio campo di specializzazione e di insegnamento. Alla radice c’è una convinzione diffusa nei secoli e di solito espressa col termine «sostituzione»: la nuova Alleanza, siglata in Cristo, subentra e si «sostituisce» a quella mosaica, facendola decadere (per questo molti usano la denominazione «Vecchio Testamento»).

Questa tesi è antica e fu formulata per la prima volta da un teologo di Sinope sul Mar Nero, Marcione, giunto a Roma nel 140-144 e divenuto popolare tanto da fondare una sua Chiesa che gli sopravvisse per tre secoli, nonostante fosse stato scomunicato per eresia. Un altro personaggio analogo fu Mani, nato nel 216 in Mesopotamia e anche lui fondatore di una Chiesa di successo, tanto da conquistare persino il ventenne sant’Agostino che fu «manicheo» (aggettivo ancor oggi in uso da noi nel senso di «estremista») per un decennio, prima di rigettare questa visione dualistica.

Infatti, sia Marcione sia Mani sostenevano la contrapposizione tra due divinità, il Demiurgo, creatore del mondo, che è il Dio crudele anticotestamentario, e il «Padre della misericordia» rivelato da Cristo. In realtà è proprio Gesù nel Discorso della montagna a dichiarare: «Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento» (Matteo 5,17). Fondamentale è proprio quel verbo greco pleroún, «dare pieno compimento, portare a pienezza».

Per questo, quando poi nello stesso Discorso per sei volte ripeterà: «è stato detto agli antichi… ma io vi dico…» (5,21-48), Cristo non vuole cancellare il precetto anticotestamentario, ma liberarlo dalla lettura minimale e condurlo a un «oltre» di pienezza che è sempre nella linea di quel comandamento. Per esemplificare, Gesù non condanna solo l’«uccidere», come è nel Decalogo, ma anche ogni offesa contro il prossimo. Lo stesso san Paolo combatte non la Legge biblica, che considera anzi «santa» e «pedagogo» per condurre a Cristo, ma la sua interpretazione volontaristica, moralistica, legalista presente in certi ambiti del giudaismo, la cui pratica escludeva che la salvezza è «molto più» del risultato delle nostre opere buone perché è il dono della comunione con la vita divina.

E allora come accogliere correttamente entrambi i Testamenti da parte del cristiano? Bisogna considerarli come espressione di un’unica storia di salvezza che – proprio perché storia e, quindi, successione nel tempo e progressività – comprende tappe diverse, ma che è parte di un progetto unitario divino di salvezza. Ogni fase di questo itinerario ha un suo valore e una sua efficacia, ma lo ha all’interno di una storia globale protesa verso il futuro.

Come l’ebraismo è aperto al futuro della pienezza messianica, così il cristianesimo si fonda sul passato salvifico di Israele che spiega il significato del presente cristologico che si sta vivendo. Usiamo un’immagine rimandando a ciò che accade in un dialogo: non si può avere la piena comunicazione e comprensione della battuta finale conclusiva se non si è seguito l’intera sequenza del colloquio nelle sue necessarie frasi precedenti.