«Lo scrittore Mario Pomilio chiudeva il suo affascinante romanzo Quinto evangelio, pubblicato nel 1975, con queste righe: «Cristo ci ha collocati di fonte al mistero, ci ha posti definitivamente nella situazione dei discepoli di fronte alla domanda: Ma voi, chi dite che io sia?». Proprio con questo interrogativo evangelico (Matteo 16,15) noi concludevamo la scorsa settimana l’ideale programma di questa nuova rubrica. Essa è destinata a rispondere a una selezione di quesiti che mi sono stati rivolti in questi anni e che continuano a pervenirmi, riguardanti temi ma anche curiosità bibliche, teologiche e spirituali.

Abbiamo, così, scelto di operare una sorta di piano di risposte, partendo proprio dalle domande “cristiane”, in attesa di proporne successivamente altre più generali, alcune anticotestamentarie, oppure rivolte a temi più “laici” e critici (fede e scienza, ad esempio) o semplicemente esistenziali (il male, il dolore, la violenza, la morte, l’oltrevita, e così via), sempre tenendo come punto di riferimento la Parola di Dio espressa nelle Sacre Scritture. Iniziamo, allora, con la figura di Gesù Cristo rispondendo, a partire da questa puntata, a una serie di interrogativi biografici apparentemente marginali. Nel Vangelo di Matteo al termine del racconto dell’infanzia di Gesù si segnala che con Giuseppe, il padre legale, «si ritirò nella regione della Galilea e andò ad abitare in una città chiamata Nazaret» (2,22-23). Anche Luca, che in questo caso lo rappresenta già a 12 anni, la maggiore età giudaica, annota che – dopo la “scappatella” nel tempio di Gerusalemme (2,41-50) – egli coi suoi genitori «scese a Nazaret e stava loro sottomesso e cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (2,51-52). Quel villaggio della Galilea era prevalentemente agricolo. Ebbene, Gesù da giovane, prima di diventare un predicatore ambulante, che lavoro esercitava?

Marco lo presenta come un tékton (6,3), qualifica che Matteo (13,55) assegna invece al padre ufficiale, Giuseppe. Che cosa indica quel vocabolo greco? Di per sé rimanda o al falegname o al carpentiere o all’artigiano, con prevalenza per la prima accezione, come ha inteso anche la tradizione successiva. In realtà la distinzione tra queste professioni era piuttosto blanda, anche perché, in un livello sociale basso com’era quello della Palestina di allora, le specializzazioni non esistevano. A questo punto, per definire lo statuto professionale e socio-economico di Gesù, bisogna evitare gli eccessi interpretativi ideologici.

Da un lato, c’è chi ha parlato di una povertà estrema. In realtà, lo standard generale di vita era allora modesto e quindi le esigenze erano minime e la famiglia di Gesù era da collocare nella classe popolare, piuttosto omogenea, che aveva mezzi di sussistenza sufficienti, anche se scarsi. Naturalmente non mancava l’esistenza di una fascia di miseria, come è attestato anche nel racconto dei Vangeli (si pensi al povero Lazzaro della parabola del ricco epulone).

D’altro lato, c’è però chi ha voluto ricondurre lo statuto di Giuseppe e di Gesù a quello della piccola borghesia: con qualche immaginazione si è pensato a loro come conduttori di un’impresa di costruzioni o di artigianato, ricorrendo a una parola aramaica, naggara’, che potrebbe essere sottesa al citato tékton. Quel termine semitico, oltre al carpentiere e al falegname, poteva indicare anche il capomastro. In verità, questa teoria un po’ fantasiosa è smentita proprio dall’ironia dei compaesani di Gesù sul suo stato di tékton, considerato come basso rispetto alla fama che ormai avvolgeva il personaggio («Non è costui il falegname?»). Cristo è, quindi, partecipe della classe comune, senza privilegi, esercitando con suo padre un lavoro semplice, analogo a quello dei suoi coetanei di allora, agricoltori, pastori o pescatori.