Isaia proclama la consolazione a coloro che sono ancora schiavi a Babilonia. Dio non ha dimenticato i suoi e sta per liberarli. La consolazione divina facciamo fatica ad accoglierla perché possiamo sperimentarla solo affidandoci alla Parola che annuncia una nuova esistenza. Una Parola, dunque, che chiede di abbandonare la convinzione che il male sia invincibile. Ci pare invece che il male sia tanto forte da renderci giustamente scettici; e così ci perdiamo la buona notizia che la nostra vita è destinata a molto, molto di più. Certo, si tratta di una parola soltanto. E’ però credibile proprio perché offre energia dentro la fatica e il dolore, favorendo una rinascita nel bel mezzo della morte. Dio mostrerà la sua salvezza, non però come ci aspettiamo. Si farà avanti con la forza mite della sua cura, che non assomiglia all’irruzione di un esercito che distrugge i nemici, bensì all’abbraccio del pastore che porta stretti in seno gli agnelli e chiede al gregge di stare la passo lento delle pecore gravide per impedire che abortiscano. Insomma: si tratta di un Re, certo; mite però, e sensibile ai bisogni dei più piccoli e deboli. Gesù è incarnazione di questo Dio, non di un altro. Si legge nella lettera agli Ebrei che desidera fare la volontà del Padre perché non è un Dio che chiede sacrifici, bensì vuole che il Figlio (e noi con Lui) viva un’esperienza umana piena di attesa e di cura per la salvezza propria e altrui. La credibilità di questo Dio risiede nel fatto che la vita te la vuole dare in pienezza, non te la chiede invece indietro. Ecco allora il vangelo, nel quale Matteo racconta l’ingresso di Gesù a Gerusalemme tra le acclamazioni che gridano: «Osanna», cioè «Salva, dunque!». Ci sono però alcune stonature che vanno notate e che aprono una prospettiva inattesa. La prima: Gesù arriva dal monte degli Ulivi, che evoca subito la sua passione, la croce, e la drammatica preghiera e l’arresto al Getsemani. La seconda stonatura è che arriva seduto su un’asina e non su un cavallo: un animale da lavoro, non uno strumento di guerra. Infine, la folla che lo acclama viene da fuori, come il profeta Gesù, e lo accompagna dalle periferie: sono i poveri, quelli che sanno cosa vuol dire aspettare la salvezza e che conoscono un amore di Dio che finalmente li privilegia. Non sono invece gli abitanti di Gerusalemme, il centro di Israele, gente orgogliosa del suo privilegio religioso, ma in realtà molto mondano. Peccato che alla lettura manchi l’ultima parte: «Mentre egli entrava in Gerusalemme, tutta la città fu presa da agitazione e diceva: “Chi è costui?”. E la folla rispondeva: “Questi è il profeta Gesù, da Nàzaret di Galilea”» (Matteo 21,10-11). Come non ricordare un’altra inquietudine di Gerusalemme, quando i Magi portarono l’annuncio della nascita del Messia? «All’udire questo, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme» (Matteo 2,3). La visita di un Dio così non può che inquietare i potenti e tutti quelli che non vogliono cambiare, chiusi al sicuro dentro il loro potere e le loro dottrine.