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Chiamati per condurre al Pastore
Gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato. Ed egli disse loro: «Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’».
Marco 6,30-31
Gli apostoli, «mandati a due a due con il potere sugli spiriti impuri», invitati a non portare con sé «né pane, né sacca, né denaro nella cintura», né «due tuniche», ma solo un «bastone» e i «sandali calzati», esortati dal Maestro a stare nelle case in semplicità e letizia ma anche ad «andarsene scuotendo la polvere» «se in qualche luogo non fossero accolti e ascoltati», tornano ora vicino a Gesù, «si radunano intorno a Lui e gli annunciano tutto quello che hanno fatto e insegnato» (Vangelo).
Si percepisce nei Dodici un entusiasmo sano, la gioia di aver compiuto la missione e forse anche la soddisfazione dei risultati raggiunti, tutte cose buone e preziose, eppure Gesù non sembra dare tanto peso al risultato quanto alla relazione, specialmente a quella tra Lui e ciascuno dei suoi. Ai 72 discepoli dirà: «Non rallegratevi perché i demòni si sottomettono a voi, ma piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli» (Luca 10,20); ai Dodici, che aveva «costituito perché stessero con Lui e per mandarli a predicare» (Marco 3,14), rinnova adesso, subito dopo la prima concreta missione, l’invito privilegiato in disparte, «nell’intimità, in un luogo solitario, per riposare un poco».
La chiamata del cristiano è, sempre e in ogni specifica condizione, stare con Gesù: incontrarlo veramente, e scegliere di seguirlo, significa innamorarsi dello Sposo e «decidere nel cuore il santo viaggio» (Salmo 83,6) insieme all’Amato, che non tradisce, perché «il suo amore è per sempre» (Salmo 118). Non siamo tanto chiamati a fare quanto a stare; non siamo inviati a compiere chissà quali miracoli, ma a testimoniare la nostra speciale amicizia con Colui che ci ha scelti e chiamati «perché stessimo con Lui», perché Lui per primo vuole stare con noi. Un impegno slegato dalla relazione ci svuota e ci toglie la gioia dell’intimità con Dio, che è il fine per cui siamo creati: siamo fatti per la festa, che è Vita; gli apostoli invece, a causa dell’impegno nella missione, «non avevano più neanche il tempo per mangiare». In questa situazione interviene Gesù, e i Dodici si allontanano con Lui «in barca verso un luogo solitario».
Molti, «vedendoli partire, comprendono» e «accorrono a piedi da tutte le città, arrivando prima di Lui». Non servono parole ma l’esempio di chi si muove prendendo con sé l’essenziale, che è Gesù e l’intimità con Lui. Questo esempio, la gioia che traspare in chi ha trovato il tesoro, che è Cristo, seduce e invita tutti a cercarne il segreto: così, e non con un impegno esorbitante che ci aliena da noi stessi e dalla nostra vocazione, diventiamo, secondo la nostra specifica chiamata, «pastori» per una moltitudine di «pecore» che ne sono prive, quelle per cui Gesù, in ogni tempo, ha la «compassione» che prelude alla moltiplicazione del pane, grande miracolo della misericordia.
A questo zelo per il Regno che non è di impiegati, ma di redenti, non di schiavi, ma di figli, è dedicata tutta la liturgia: Dio è il vero «pastore, che fa riposare su pascoli erbosi, conduce ad acque tranquille, prepara una mensa» (Salmo 22, Responsorio), diverso dai pastori malvagi «che fanno perire e disperdono il gregge». Egli «raduna le sue pecore da tutte le regioni: saranno feconde e si moltiplicheranno»; «costituisce per esse pastori che le fanno pascolare: non ne mancherà neppure una» (I lettura, Geremia 23). È la chiamata alla vita: che nessuno si perda e, per la nostra intimità con Gesù, «possiamo presentarci al Padre, gli uni gli altri, in un solo Spirito» (II lettura, Efesini 2). Buona domenica!



