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di Massimo Tellan, Sacerdote e membro della Commissione Cultura del Giubileo
«Quanto sono belli, sui monti, i piedi del messaggero di buone notizie, che annuncia la pace, che è araldo di notizie liete, che annuncia la salvezza, che dice a Sion: "Il tuo Dio regna!"» (Is 52,7). Le parole del profeta Isaia, più che mai, rappresentano il desiderio del cuore umano di "buone notizie". Ne facciamo tutti l'esperienza - in questo tempo segnato dagli strumenti dell'odierna tecnologia - in momenti particolari dell'anno, magari in occasione di ricorrenze quali Natale, Pasqua, o il passaggio da un anno solare a un altro, quando i nostri telefoni cellulari si ingolfano dei più originali, o bizzarri, messaggi di auguri.
Senza speranza non si può camminare verso il domani, ma neppure sopportare il peso che, talora, il passato grava sulle nostre spalle. Tutti siamo affamati di speranza in un tempo nel quale si può finire per essere afflitti da bulimia di disperazione. Basta vedere i programmi televisivi che si "accaniscono" su fatti di cronaca nera, con distorto interesse, o i dibattiti dove improvvisati ospiti - che si vorrebbero esperti ma tali non sono - si parlano addosso senza dire nulla. Sembra una sorta di schizofrenia culturale, se non spirituale.
Sentiamo un anelito di speranza profonda iscritta in noi, eppure siamo morbosamente divoratori di cattive notizie! In questa occasione straordinaria dell'Anno giubilare, ci viene offerta l'opportunità ti rimettere la speranza al centro della nostra vita.
Cosa spero? Perché spero? In chi spero? Che ragioni posso dare - come ci dice 1Pt 3,15-17 - alla speranza che è in me? Sono domande quanto mai legittime per tutti gli uomini ma ancor più per noi credenti del Signore Gesù.
Tutti sperano, ma non tutti nutrono la medesima speranza. E questo, evidentemente, condiziona anche il mondo della comunicazione. Infatti se le speranze che ci muovono sono soltanto quelle immanentiste, ritengo che troppo spesso corrono il rischio d'infrangersi contro l'ineluttabilità di fatti tutt'altro che capaci di confermare le speranze in un domani migliore. Se le nostre speranze, al contrario, si radicano nell'unica «speranza che non delude» - come ci ricorda la Bolla d'Indizione dell'Anno giubilare in corso - allora potremo leggere anche i fatti di cronaca non arrendendoci al pessimismo o peggio alla disperazione.
Saper leggere la storia trasfigurandola cosicché la comunicazione abbia a infondere coraggio e forza piuttosto che assoggettarsi a quelle forze che sfigurano la storia, umiliando le persone. È bello vedere come papa Francesco spesso - e ancor più con forza nel suo Messaggio per la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali - ci ricordi quanto importante sia anche il modo di comunicare.
Porre attenzione non solo a quanto si vuole comunicare ma anche a come si comunica. Infatti, in un mondo inflazionato da parole, riscoprire il senso della "parola" come verità da condividere, piuttosto che propinare se non imporre, è divenuta un'urgenza prioritaria. Quando diamo una notizia, condividiamo un pensiero, riportiamo un evento, siamo profeti di sventura o araldi di speranza? Come e perché lo facciamo? Se in noi arde quella speranza che non delude perché siamo pieni dell'amore di Dio (cfr. Rm 5,5), allora non solo diremo delle "cose" ma condivideremo ciò che siamo e, col nostro condividere, sapremo porre in atto una comunicazione degna di questo termine. Una comunicazione che crea ponti e abbatte steccati piuttosto che crearne di nuovi.
- Articolo tratto da PAGINE APERTE, speciale Settimana della Comunicazione
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