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Al Centro Re.Te. si arriva in silenzio. Non solo per rispetto, ma perché quel silenzio è parte stessa della cura. «Appena entri, si sente. È un’atmosfera che ti accoglie. È la precondizione per essere ascoltati», racconta Ivano Zoppi, segretario generale della Fondazione Carolina e ideatore di questo progetto nato alle porte di Milano, a inizio aprile.
Re.Te. è l’acronimo di “Recupero e Terapeutico” (in forma estesa Centro di Recupero e supporto Terapeutico per disagi giovanili), ma è soprattutto una casa del benessere per adolescenti e famiglie in difficoltà. Qui arrivano ragazzi che faticano a gestire la rabbia, che si chiudono in camera, che si fanno del male. Alcuni sono inviati dai tribunali minorili, altri dalle scuole, altri ancora bussano alla porta con i genitori. In poco più di un mese, sono già una trentina i giovani accolti. Nessuno è escluso, anche chi non può permettersi nulla.


Il primo passo è l’ascolto. Ogni ragazzo ha diritto a un anno intero di supporto psicologico individuale. Poi si passa al secondo livello, quello educativo: attività in gruppo pensate per fascia d’età, e percorsi personalizzati nel territorio. Ogni giovane è accompagnato da un educatore di riferimento. «Un ragazzo, per esempio, viene seguito dallo psicologo, partecipa al laboratorio teatrale e poi fa ippoterapia. Entra in relazione con il cavallo, lo cura, e poi… spala anche il letame. È un modo per restituire, per sentirsi parte di qualcosa», spiega Zoppi. «La crescita avviene nel quotidiano, attraverso esperienze concrete e simboliche. È lì che si costruisce la responsabilità».
Il Centro non offre solo servizi: costruisce legami. Lo fa anche grazie alla dedizione degli educatori. «Spesso andiamo a prendere i ragazzi alla fermata della metro o a casa, perché non riescono nemmeno a uscire da soli», racconta Francesca Parravicini, coordinatrice degli educatori. «Ci sono storie fragili, a volte dolorose. Ma qui trovano uno spazio che li fa sentire accolti. Alcuni ci dicono: “Sembra di entrare in una casa”». Ed è proprio questo il cuore del progetto: un luogo che non giudica, che accompagna, che sa aspettare.
La casa è bella, con grandi cucine, spazi colorati, un ampio giardino, stanze inondate di luce e tavoli sempre apparecchiati per chi vuole fermarsi a pranzo. «Abbiamo voluto creare un luogo dove si stia bene, perché spesso i ragazzi provengono da ambienti faticosi, anche solo esteticamente. Qui si sentono valorizzati, anche solo perché sono accolti in un posto bello», dice Zoppi.


Accanto ai colloqui psicologici e al lavoro educativo, ci sono attività espressive e relazionali: pet therapy, teatro, sport, orto, cucina, momenti in oratorio. Alcuni ragazzi sono inseriti in percorsi di messa alla prova, altri partecipano a laboratori creativi o di comunicazione. Non mancano momenti formativi per adulti: corsi per genitori ed educatori, incontri con le scuole, sportelli psicopedagogici. «Ci sono papà che tornano a trovarci anche quando il percorso è finito», racconta Francesca. «Perché qui hanno trovato un punto fermo, uno spazio di confronto autentico».
Un’attenzione particolare è rivolta all’educazione digitale e alla prevenzione del disagio online, in continuità con il lavoro di Fondazione Carolina. «Quando un ragazzo ci segnala un episodio di cyberbullismo o revenge porn, attiviamo un team interdisciplinare che coinvolge anche avvocati e informatici forensi», spiega Zoppi. «È fondamentale intervenire in modo rapido ma anche educativo. Non si tratta solo di punire, ma di accompagnare nella comprensione e nella riparazione dell’errore».
Negli ultimi due anni scolastici, il servizio di Pronto intervento cyber – il “Rescue Team” della Fondazione – ha gestito 274 casi in tutta Italia, mettendo in campo un’equipe multidisciplinare con competenze psicologiche, cliniche, giuridiche e comunicative. «È un’esperienza fondamentale, non solo in termini di supporto, ma anche di know how, capace di individuare nuovi modelli d’intervento», osserva Zoppi. «E soprattutto ci ha insegnato una cosa: che il vero punto di partenza, anche nei casi più complessi, è l’ascolto».


Ogni anno, la Fondazione incontra oltre 90mila studenti in scuole, oratori, associazioni sportive e tutti i luoghi abitati dai ragazzi. «Giovani e giovanissimi che sanno più e meglio di noi adulti cosa sia il cyberbullismo, perché lo vivono quotidianamente», sottolinea ancora Zoppi.
Un’urgenza crescente, se si pensa che tra gli 11 e i 19 anni, ogni ragazzo trascorre in media due mesi all’anno sul web. Milioni di adolescenti sempre più connessi, ma anche sempre più soli, esposti a rischi di alienazione, omologazione, polarizzazione, dipendenze, ansia, depressione e ritiro sociale. «Una colpevole assenza educativa – continua Zoppi – figlia della scarsa percezione sul ruolo di social e chat nella vita reale dei nostri figli».
Nella fase di start up, il Centro Re.Te. ha già gestito 34 casi di preadolescenti, adolescenti e giovani adulti in situazione di disagio e fragilità. I casi arrivano dal servizio sanitario nazionale, dalle reti scolastiche e territoriali. «Un approccio capace non solo di intervenire a valle dei disturbi, ma anche di agire sui sintomi, prima che il disagio possa sfociare in patologia», aggiunge Zoppi.


Re.Te. è anche questo: un luogo che non stigmatizza, ma ripara. Un ambiente dove si può sbagliare e rialzarsi, dove si impara a riconoscere il proprio valore. «La qualità della relazione è tutto. Perché questi ragazzi spesso non hanno una relazione positiva neppure con sé stessi. E se non ti dai valore, come fai a costruire legami buoni con gli altri?», sottolinea Ivano. «Per questo ogni percorso è su misura, perché ciascuno è unico. E il nostro compito è ricordarglielo».
Ma costruire un sistema così articolato, gratuito per le famiglie, richiede risorse. «Quando ho proposto il progetto, il consiglio della Fondazione Carolina ha detto sì, ma con una condizione: che l’accesso restasse gratuito. Paghi solo l’assicurazione. Ma per farlo servono investimenti continui», spiega Ivano. Alcuni fondi sono arrivati dal Comune, altri da sostenitori privati, ma le esigenze sono in crescita. «La vera sfida è far capire che la qualità costa. Non puoi fare un centro come questo senza garantire continuità, tempo, professionalità. E i ragazzi non hanno bisogno di soluzioni a basso costo: hanno bisogno di relazioni vere, di sentirsi unici, irripetibili, preziosi. Perché è così che sono».
Il futuro? «Vorremmo aprire altri centri, in altre città. Ma soprattutto vogliamo formare una nuova generazione di educatori e professionisti del benessere relazionale. Questo è un mestiere delicato, che richiede ascolto, equilibrio, presenza. Ma anche tanta speranza. E quella, qui, non manca».



