Questa intervista è stata realizzata lo scorso autunno durante il Festival di Roma in cui fu presentato Una questione privata, l'ultimo film dei fratelli Taviani prima della scomparsa di Vittorio, avvenuta lo scorso 15 aprile a 88 anni.
Fa davvero effetto vedere Paolo Taviani senza il fratello Vittorio alla presentazione di un loro film. Ma ovviamente il primo a esserne stupito è stato proprio lui. «Con Vittorio abbiamo lavorato a Una questione privata come sempre, ma a causa di un incidente ora lui fa troppa fatica a camminare, così per la prima volta ho girato un film da solo. Ogni tanto sul set, dopo aver detto uno: “Stop, buona!” di una scena, mi voltavo indietro per vedere se era d’accordo con me. Solo che stavolta non c’era. Però ogni sera gli inviavo i giornalieri con i girati e poi ci sentivamo al telefono. Il filo, insomma, non si è mai interrotto».
Una questione privata è tratto dall’omonimo romanzo di Beppe Fenoglio. Perché siete tornati a raccontare di nuovo la Resistenza 35 anni dopo La notte di San Lorenzo?
«Ma noi non siamo affatto partiti dalla Resistenza, appunto perché ne avevamo già parlato. A noi interessava portare al cinema Beppe Fenoglio, un autore che abbiamo sempre amato».
Cosa vi affascina di questo libro?
«Il dramma interiore che dilania il protagonista, Milton, diviso tra i suoi sentimenti e il momento storico che sta vivendo. Quando scopre che la donna che ama potrebbe avere avuto una relazione con il suo migliore amico, partigiano come lui che è stato catturato dai fascisti, impazzisce di gelosia e questo gli fa dimenticare gli ideali che lo hanno spinto a salire in montagna. Non a caso Italo Calvino paragonò questo libro all’Orlando furioso perché anche lì abbiamo un guerriero che viene travolto dalla passione amorosa. Il film è tutto una corsa di Milton tra i monti per scoprire la verità su cosa c’è stato tra Giorgio e Fulvia».
Una questione privata, appunto, che lascia sullo sfondo la Resistenza…
«Sì, anche se credo di essere stato chiarissimo nel mostrare che il fascismo è il male. In una scena si vede una famiglia di contadini con vecchi, donne e bambini trucidati davanti alla loro casa, una scena ispirata a un episodio realmente accaduto. E i responsabili furono solo fascisti che durante la Repubblica di Salò in molti episodi mostrarono una ferocia verso le popolazioni pari a quella dei nazisti».
Ha girato nelle Langhe dove è ambientato il romanzo?
«Ci siamo stati, ma abbiamo trovato solo magnifici vigneti, mentre avevamo bisogno di un paesaggio più aspro. Allora ci siamo spostati sempre in Piemonte, ma in Val Maira. Abbiamo girato a 2.300 metri con un freddo incredibile. I monti erano un vero anfiteatro naturale, ma al direttore della fotografia ho detto: “Taglia tutte le cime”. Non volevo che gli spettatori fossero distratti dalla loro bellezza. Volevo una vallata immersa nella nebbia e nella sofferenza».
Che ricordi ha degli anni del fascismo e poi della guerra?
«A San Miniato, dove siamo cresciuti, io ero “figlio della lupa”, mentre Vittorio era “balilla”. Mio padre invece era un noto avvocato antifascista e infatti non portava il distintivo del partito. Quando gli chiedevamo spiegazioni era sempre molto vago perché aveva paura che noi potessimo andare in giro a dire qualcosa di compromettente. Per noi bambini Mussolini era una divinità e mi ricordo come ci accalcavamo attorno alla radio quando sentivamo la sua voce. Poi, a poco a poco, abbiamo aperto gli occhi, specie da quando vedevamo nostro padre sparire per nascondersi».
È vero che spesso trovava rifugio in una chiesa?
«Scoprimmo che faceva parte del Cln quando una sera nostra madre ci disse di portargli da mangiare. Si nascondeva sul campanile della parrocchia di don Micheletti, che era anche il nostro insegnante di latino e che noi adoravamo. Quella sera, per la prima volta provammo paura, ma anche un forte desiderio di fare la nostra parte, anche se eravamo due ragazzini».
Cosa vi faceva più paura?
«Non dovrei dirlo, ma non mi sono mai divertito tanto come in quel periodo. La nostra scuola, per esempio, era in alto rispetto al paese e quando arrivava l’allarme aereo correvamo tutti fuori per i prati, mentre le bombe cadevano giù nella zona della stazione e noi riuscivamo persino a vedere il viso dei piloti americani. Più di tutto, ci piaceva il senso di complicità che si era creato con nostro padre. Fino a quel momento lo vedevamo come un autorità, un po’ distante. E invece eravamo felici di poterlo aiutare, di fare una vita avventurosa accanto a lui».
Qual è stato il momento più rischioso che avete vissuto?
«Dopo qualche mese Vittorio, che è più grande di me, seguì mio padre in campagna, mentre io restai a casa. Un giorno sentii bussare alla porta. Erano i tedeschi. Andai ad aprire e mia madre mi bloccò: “Fermo, non si va scalzi di fronte al nemico!”. Cominciarono a perlustrare la casa e uno dei due scivolò per terra perché mia madre aveva appena passato la cera. Per un po’ si misero a ridere come matti: erano solo due ragazzi di non più di 16-17 anni. Poi però andarono sul terrazzo e videro due uomini in strada. Uno dei due prese il mitra e puntò. Mia madre allora con un balzo lo spinse a terra. Io pensai: “Ora la ammazzano!”. E in effetti, erano inferociti. Ma quando entrarono in una stanza e videro mia nonna pregare davanti al Crocifisso, aprirono la porta e se ne andarono».
Ripensando al coraggio dei suoi genitori e ai milioni di vittime del nazifascismo, cosa ha provato quando ha visto l’immagine di Anna Frank ridotta a una figurina di una squadra di calcio?
«Un’indignazione profondissima e credo che la scuola sia la prima responsabile di questo misfatto. I ragazzi fanno queste cose perché non sanno niente. Noi possiamo fare i film, ma è la scuola che dovrebbe insegnare cosa sono stati il fascismo e il nazismo. Ai bambini insegniamo fin dalle elementari l’inglese? Allora dobbiamo insegnare anche cosa è stata la Shoah».