«Le fiabe non hanno paura dell'esperienza, anzi fanno di tutto per portare alla luce alcune verità anche scomode e imbarazzanti dell'esperienza umana». Silvano Petrosino, docente di Filosofia della comunicazione all'Università Cattolica di Milano, è autore di un avvincente saggio filosofico, Le fiabe non raccontano favole – Credere nell'esperienza (Il Melangolo, pp. 96, 12 euro), in cui affronta il tema dell'esperienza a partire proprio dalla fiaba con un'interpretazione originale del “viaggio della donna” attraverso l'analisi di Cappuccetto Rosso e Biancaneve.
Perché le fiabe prendono sul serio l'esperienza umana?
«Esse, come tutta la grande letteratura, sono dei racconti di finzione. Non è mai esistita Madame Bovary, Anna Karenina o Cappuccetto Rosso appunto. Allo stesso tempo, però, pur essendo un racconto di finzione, la fiaba pretende di dire la verità e dice la verità».
La verità su che cosa?
«Sull’esperienza del soggetto, di ognuno di noi. In questo senso tutta la letteratura, da Omero a Shakespeare, da Tolstoj a Flaubert, compresa la Bibbia, ha a che fare con l’esperienza dell’uomo e svela su di essa verità talvolta anche dure da accettare».
Ma cosa significa credere nell'esperienza?
«Anzitutto capire che l’esperienza che noi facciamo non è qualcosa di soggettivo o arbitrario ma è l’unico accesso ad una verità più ampia. In questo senso, le fiabe sono oneste, non come quelle moderne che tendono a coprire tutti i lati, a indorare un po' la pillola».
Cosa intende per esperienza?
«Gli affetti, la fede religiosa, la bellezza estetica. È chiaro che la nostra esperienza è anche il luogo della menzogna, del vizio, della finzione, dell’inganno, del limite. Però – ecco la sfida – non bisogna aver paura di questo. La tradizione cattolica chiama tutto questo peccato. C'era un tizio che diceva di non essere cattolico e quindi di commettere solo reati e non peccati. Sbagliava, evidentemente, perché l’esperienza del peccato è molto più ampia e drammatica. Il tradimento dell’amico, la disattenzione nei confronti del povero o essere attratti dal male non sono certo reati, eppure noi sappiamo che non va bene, che lì c’è qualcosa che non va».
La copertina del libro di Silvano Petrosino
Perché, analizzando Cappuccetto Rosso e Biancaneve, ha intitolato questa parte il “viaggio della donna”?
«Perché entrambe le fiabe hanno a che fare con il viaggio della donna, ossia con il suo ciclo fertile. Quando questo finisce, la donna fa esperienza nel suo corpo di un vero e proprio anticipo della morte. È un'esperienza a volte terribile, come dimostra la strega di Biancaneve».
Qual è la verità di questa fiaba?
«Sarebbe inspiegabile il comportamento della strega se il problema fosse solo la bellezza di Biancaneve. In realtà, lo specchio comunica alla strega una notizia terribile: che il suo ciclo fertile è finito, che non ha avuto e non potrà mai più avere figli. Una verità tremenda acuita dal fatto di vedere Biancaneve che invece ha sette anni, numero magico nella tradizione favolistica, e s'avvia a diventare signorina.
Tutto questo genera nella strega una reazione violentissima: ordina al cacciatore di uccidere la ragazza per poterne mangiare i polmoni e il cuore. È una sorta di cannibalismo rituale con il quale tenta di recuperare la fertilità. Qualcosa di enorme, la fiaba non inganna. Se non si arriva a questo punto, non si capisce. Non è certo la bellezza il motivo che scatena tutto! L’altra grande verità che dice la fiaba è che noi, prima o poi, faremo esperienza della fine, del limite. Di fronte a questo ci sono due strade: quella dell’accoglienza oppure quella della violenza e della distruzione».
E i nani? Che ruolo hanno?
«La fiaba dice che non basta che noi ci proteggiamo, ci curiamo, mangiamo, perché l'accesso al diventare adulti e maturi implica un uomo vero, i nani non sono né bambini e né uomini. Il periodo che Biancaneve trascorre con loro è un periodo di latenza e di protezione che prima o poi deve finire. La matrigna tenta tre volte di ucciderla con un pettine magico e un corsetto, cioè con gli strumenti della femminilità. E Biancaneve cede, come Cappuccetto Rosso, perché il pettine e il corsetto, due strumenti della femminilità, le piacciono. L'ultima tentazione è la mela, la strega dice che non è avvelenata e fa la prova mangiando quella bianca, Biancaneve mangia quella rossa, che simboleggia la passione e il sangue. E s'accascia. Per i nani è morta: questo vuol dire che loro non vedono e non riescono a vedere la sua femminilità, il suo essere donna. È il principe ad accorgersi di questo. Altra verità enorme: non basta che una cosa sia evidente, bisogna avere uno sguardo per vedere».
Dall'analisi di Cappucetto Rosso emerge che, a differenza dell'interpretazione comune, c'è in qualche modo una certa attrazione nei confronti del lupo...
«Si tratta di un rapporto che non è solo di repulsione e pericolo ma anche di attrazione. Cappuccetto Rosso, ecco la verità svelata dalla fiaba, è attratta dal lupo. E questo è un elemento tipico dell’esperienza umana. Se chiediamo a qualcuno se è attratto dal male ti risponderà di no, ovviamente, ma in realtà poi non è così. Cappuccetto Rosso dice chiaramente al lupo che sta andando dalla nonna come, dicono gli studiosi, se si volesse far trovare e raggiungere. Da come è scritto il racconto questo si capisce chiaramente. L’esperienza non è un concetto astratto, esiste la tua e la mia esperienza però alcune costanti sono comuni a tutti. Anna Karenina, ad esempio, pone il problema su come mai una donna intelligente, con un figlio, con un marito un po' noioso ma intelligente e che fa un lavoro di responsabilità alla fine lascia tutto per Vronskij arrivando addirittura ad uccidersi. Una passione strana. Ecco, questo è interessante dal punto di vista dell'esperienza perché noi siamo come Anna Karenina, noi siamo capaci di abbandonare il figlio. Se tu chiedi in giro: lo abbandoneresti tuo figlio? Nessuno risponderebbe di sì. E invece capita il primo Vronskij e lo abbandoni».
Oggi si parla di uomo senza inconscio. Esiste un uomo senza esperienza?
«No, il problema è che noi non diamo credito alla nostra esperienza. Noi tendiamo a dire che il momento di malinconia che ti prende la sera o la rabbia mentre litighi con la fidanzata non hanno importanza, è importante il mondo diurno, quello dei ruoli (professore, dottore, cardinale...). Poi c’è un lato notturno, che è quello autentico».
Perché?
«Perché qui emergono gli interrogativi concreti. Per me, ad esempio, è la questione del “perché non mi ami? Perché hai scelto un altro?”. Non è una cosa da poco, qui è il punto. Si tende a dire che il mondo “vero” è quello diurno, cioè quello misurabile, calcolabile, pianificabile, mentre quello notturno, che è quello dell’esperienza, della fede religiosa, dell’innamoramento, viene derubricato a qualcosa di privatistico e personale. L’uomo di oggi vive quasi sdoppiato. E vivendo così, il lato notturno diventa il lato della perversione, di sera mi ubriaco, mi drogo, faccio le schifezze e poi di giorno metto la camicia bianca e vado in ufficio».
Ma l'esperienza si può cancellare o nascondere?
«No perché noi siamo la nostra esperienza. Essa viene continuamente fuori nel sogno o nel lapsus, come dice Freud ad esempio. Nell’impotenza, cioè nel fatto di non riuscire a fare una cosa, nell’attacco di panico, nell'assalto della tristezza o dell’angoscia. Perché sono angosciato? È una questione enorme. Mentre nel caso della paura io temo perché quell’uomo lì ha il coltello in mano e mi minaccia, nel caso dell’angoscia non c’è nessun uomo che mi minaccia. Sono sul divano, ho cenato con mia moglie e i miei figli, sono tranquillo eppure vengo assalito da un senso fortissimo di malessere e di vuoto che mi fa arrovellare, a chiedermi che cosa mi disturba così tanto. Perché lui o lei magari non ti considera o tuo figlio fa qualcosa che non vorresti. Se tu non dai credito a queste cose qui, alla fine queste parleranno al posto tuo. Freud in questo è grandioso. Diventeranno dei sintomi, delle malattie psichiche e ad un certo punto tu non riesci più a mangiare, a fare l’amore, a dormire».
Qual è, se c’è, la soluzione?
«Nessuna. Bisogna essere seri con la propria esperienza, il che non vuol dire misurarla o illudersi di poterla controllare ma tentare di comprenderla sapendo, o meglio accettando, che c’è qualcosa che sfugge sempre. È difficilissimo, ad esempio, accettare il fatto che scrivi il figlio alla scuola di calcio e non è Maradona. Però il fatto che non sia Maradona non è un fallimento ma un tratto dell’esperienza. Essere seri con la propria esperienza significa capirne il senso».
Nel
senso di direzione, di dove andare?
«Esattamente.
Cosa me ne faccio del fatto che tu non mi ami? Ti costringo? Certo
che no. Io ci soffro tantissimo ma essere seri con questo non
significa negarlo o censurarlo. Difficilissimo. Nessuno sa come si
fa. Chi, ad esempio, nella sua vita fa una grande esperienza di
dolore o si arrabbia tantissimo e diventa violento nei confronti
degli altri oppure diventa capace di compassione, sensibile al dolore
dell’altro. Non è poco. Se mi immedesimo con serietà nella strega
di Biancaneve capisco che quella che le comunica lo specchio è una
durissima realtà da accettare».