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domenica 06 ottobre 2024
 
 

Accidia, uno sbadiglio ci seppellirà

02/01/2013  Il rapporto deformato con lo spazio. Ma anche il torpore malinconico, l’inerzia, la noia: le riflessioni spirituali del monaco Enzo Bianchi e le interpretazioni nella storia dell’arte.

A come accidia. O, come la chiama Enzo Bianchi, acedia, prendendo di peso il vocabolo greco che significa “senza cura”. Uno sbadiglio potrebbe essere la sua icona. I suoi seguaci? I pigri, quelli che ciondolano in giro tutto il santo giorno senza combinare niente. Noia, insomma. Un vizio, se possibile, più pericoloso degli altri perché in apparenza può sembrare vago e indefinibile. Esprime un forte disagio esistenziale. Un tempo l’acedia era “il demone del mezzogiorno” che tentava nell’ora più calda i monaci delle prime comunità in Egitto. Oggi, in Occidente, l’accidia è il demone notturno che minaccia ciascuno di noi col suo vuoto, rapporto deformato con lo spazio

Ci sono altri modi di definirla: indifferenza, disinteresse, apatia. Ma non ci si deve scherzare: l’acedia può portare diritti all’Inferno. Dante immerge gli accidiosi nella palude Stige: neanche si vedono, sotto la melma, ma se ne intuisce la presenza dal gorgogliare dell’acqua. Stanno in posizione orizzontale così come li rappresenta nel suo Inferno William Blake, poeta e pittore simbolista inglese dell’Ottocento. San Tommaso d’Aquino, nella Summa theologiae, sottolinea come l’accidia possa portare alla paralisi interiore.

Malattia della psiche e dell’anima, l’acedia rende incapaci di lavorare, concentrarsi, stare al proprio posto. Fa sentire claustrofobicamente schiacciati dalle situazioni. E proprio il nostro modo moderno di vivere, compulsivo e iperattivo, genera quella insoddisfazione, sconforto. Un vizio che predilige i solitari.
Ma tutti siamo a rischio, tentati dallo zapping e ossessivamente tentati dall’ultima email. Finché il vuoto interiore ci assale. A volte sotto forma di malinconia. Nel 1514 Albrecht Dürer rappresenta la sua Melencolia come una ragazza ripiegata su sé stessa, mentre intorno spazio, tempo e oggetti la opprimono.
E Hieronymus Bosch, nei Sette peccati capitali, rappresenta l’accidia nell’immagine di un borghese, seduto davanti al camino, appoggiato mollemente il capo a un cuscino, sonnacchioso, mentre una suora invano lo invita alla preghiera porgendogli un rosario.

Nel Novecento il surrealista Giorgio De Chirico (Due maschere, 1916), il futurista Mario Sironi (Solitudine, 1925) e Amedeo Modigliani (Giovane operaio, 19181919) esprimono quel disagio e spaesamento interiore che è una caratteristica del mondo contemporaneo, quel male di vivere che il filosofo esistenzialista JeanPaul Sartre descrive nel suo romanzo La nausea, del 1932. Carl Gustav Jung, padre della moderna psicologia analitica, individua l’acedia come passaggio che caratterizza la crisi dell’età di mezzo. O della vecchiaia, come ci mostra Rembrandt nel suo Studio di vecchio. Per superare l’acedia occorre relativizzare gli idoli dell’avere e del fare a favore dell’integrazione del sé con la totalità. Lo stesso percorso, in termini diversi, propone la Chiesa indicando nel Paradiso la meta definitiva della vita umana. Ma come ci arriveranno gli accidiosi che «visser sanza ’nfamia e sanza lodo»? (Dante, Inferno). L’Apocalisse ha parole terribili: «Conosco le tue opere: poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca» (Ap 3,1516).

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