La parola accoglienza è emersa con forza nella giornata di giovedì 23 giugno, prima del convegno teologico-pastorale, come uno degli elementi più forti ed innovativi di quella famiglia che è vocazione e chiamata alla santità, titolo ed orizzonte generale delle giornate romane. Le storie più appassionanti, le testimonianze più commoventi hanno danzato attorno a questa parola, descrivendone la bellezza e le potenzialità. La capacità di “accogliere” è stata presentata come una dimensione trasversale, una sorta di struttura nascosta ma irrinunciabile del familiare, non solo per le relazioni interne, ma anche come apertura agli altri. È ovviamente risuonata più volte la nuova formula del rito del matrimonio, “Io accolgo te”, soprattutto nelle storie di tradimento e perdono nella coppia, come hanno ricordato Stephen e Sandra Conway, dal Sudafrica. E anche nella brillante e commovente testimonianza da Roma, di Gigi De Palo e AnnaChiara Gambino, della gioia per la nascita di Giorgio Maria, quinto figlio nato con la Sindrome di Down, ma accolto in tutta la sua bellezza e originalità (nostro figlio non è la sindrome di Down, ma la sindrome è una parte di lui, che amiamo come tutte le altre).
Ma certamente la dimensione più innovativa dell’accoglienza sta nella capacità di aprire il progetto d’amore della coppia e della famiglia ad altri: altre famiglie, altre coppie, bambini senza genitori, persone in difficoltà, come è risuonato con grande efficacia nella testimonianza spagnola di Jordi Cabanas e Gloria Arrau, di Famiglie per l’accoglienza, che hanno generato una comunità di famiglie aperta all’accoglienza di tutti. E non a caso ieri è stato ricordato anche don Oreste Benzi, uno dei profeti dell’accoglienza familiare nel nostro Paese, la cui eredità è tutt’ora trasmessa in tutto il mondo dalle migliaia di famiglie accoglienti della Comunità Papa Giovanni XXIII.
Sono solo alcune delle esperienze che più o meno esplicitamente ieri hanno affermato che la famiglia cristiana non può essere un mondo chiuso, con le proprie gioie e fatiche riservate solo ai propri membri, ma vive e fiorisce solo con porte e finestre aperte, pronta a farsi carico da chi bussa alla porta. Con semplicità e generosità, come hanno fatto in questi mesi decine di migliaia di famiglie in Europa, soprattutto polacche (ma non solo) di fronte al dramma della fuga dalla guerra di tante donne, anziani e bambini ucraini.
Insomma: sarebbe bello che, dopo le giornate mondiali di Roma, nei percorsi di preparazione al matrimonio venisse inserita una serata o un incontro sull’accoglienza (magari non con un discorso teorico, ma con il racconto concreto di una famiglia che fa accoglienza), per preparare i giovani sposi all’idea che fare famiglia non vuol dire solo costruire un nido d’amore in cui potersi rifugiare, ma soprattutto testimoniare al mondo che la propria felicità personale e la propria pienezza di umanità si conquista solo nella relazione con l’altro e nella sua cura.
Del resto, anche Ermanno Olmi, in una scena per me indimenticabile dell’Albero degli zoccoli, mostra una coppia di giovani sposi, di ritorno dal viaggio di nozze, che porta con sé un bambino orfano, che diventerà subito il loro primo figlio, fin dai primi giorni della loro nuova vita di coppia: generato e portato alla vita da loro, non in forza di un vincolo di sangue, ma grazie alla capacità di allargare da subito la loro storia d’amore a chi ne aveva bisogno. E oggi tanta parte di umanità ha nelle proprie storie e nei propri desideri un bisogno disperato di famiglie accoglienti, capaci di accoglierli nel proprio cerchio d’amore.
* direttore del Cisf (Centro Internazionale Studi Famiglia)
Dal Decimo Incontro Mondiale Famiglie – Roma, 22-26 giugno 2022