«Lavoreremo molto sul tema delle buone prassi. Ci sembra un modo intelligente per partire più dalla pratica dalla teoria. Oggi abbiamo ancora 3.300 circoli in Italia che svolgono le attività più diverse e sono esempi ancora molto vivi in molti luoghi di elementi comunitari. Noi lavoreremo prendendo spunto da questo tema delle buone prassi per poter provare a far sì che il circolo ricopra sempre di più una funzione di tenuta sociale. Anche noi abbiamo delle esperienze molto interessanti e stiamo cercando di fare una fusione di queste prassi».
Roberto Rossini, presidente delle Acli e portavoce dell’Alleanza contro la povertà, prova a guardare al dopo Cagliari. «Serve una politica che abbia lo sguardo lungo e che provi a immaginare cosa può avvenire nei prossimi dieci anni».
I giovani possono avere prospettive di lavoro?
«Questo è un tema da affrontare, L’occupazione giovanile e i bassi salari che sono riferiti soprattutto ai giovani. In questo senso mi sembra interessante la proposta del Governo di decontribuzione fino ai 35 anni, però deve essere autorizzato dall’unione europea che prevede fino a 29. Questo permette alle aziende di investire sui giovani. Certo, rimane il problema che il mercato, da solo, continua a non autoregolarsi, deve intervenire lo Stato. Questo è un fatto: ci troviamo di fronte a una situazione per cui non si riesce a creare lavoro – perché il lavoro non si crea per legge – e anzi il mercato produce espulsioni di intere categorie senza che i giovani possano entrare. Ci vorrebbe più Stato, in realtà si sta andando nella direzione inversa».
Cosa fare?
«C’è un problema di politica: che tipo di politica riusciamo a immaginare rispetto a questo? Immaginiamo nei prossimi dieci anni che ci sia più o meno lavoro? E , soprattutto, che tipo di lavoro? Dobbiamo mettere a tema queste questioni, cioè dobbiamo provare a immaginare cosa possono essere i prossimi dieci anni e quindi quali competenze dobbiamo formare, dove mettiamo i soldi e gli investimenti? Questa è la grande questione che ci porta anche a dire che dobbiamo sostenere il tema della formazione».
Intanto il Governo sta pensando al reddito di cittadinanza. Perché voi preferite quello di inclusione?
«Perché il reddito di inclusione è sottoposto alla prova dei mezzi, cioè bisogna dimostrare di stare in una certa condizione economica: un isee di 6.000 euro e un reddito di tremila. Il reddito di cittadinanza invece è indiscriminato ed è sottoposto a criteri molto larghi che consente più o meno a tutti i cittadini di percepirlo indipendentemente dal fatto che lavorino o meno. Almeno questo in letteratura, bisogna poi vedere come tradurre la proposta concreta di legge. Noi riteniamo che il reddito di inclusione possa essere uno strumento più idoneo rispetto al reddito di cittadinanza per almeno due ragioni: la prima è che occorre, secondo noi, collegare il tema del reddito al lavoro e all’attività. Chi godrà del Rei dovrà impegnarsi per frequentare dei corsi, partecipare a degli appuntamenti e accettare alcune proposte di lavoro se ci sono. Questo è condizionante. La seconda è che se lo Stato da un reddito ai cittadini indipendentemente dal suo impegno e dal fatto che abbia altre rendite diventa un fatto di “ingiustizia” sociale. Certo c’è anche chi pensa che dotare tutti i cittadini di un reddito permette di alzare i consumi, fa aumentare il costo del lavoro e riprendere un ciclo economico, ma io sono convinto che il Rei è uno strumento più adatto per stimolare l’impegno dei cittadini e lo sviluppo sociale».