Come tutti sanno, non c’è soltanto l’aspetto sanitario in questa dannata faccenda del coronavirus. C’è anche il contagio economico, spesso figlio della psicosi collettiva di cui stiamo diventando inesorabilmente vittima. Una psicosi peraltro comprensibile, dato che la faccenda è seria al punto che anche il governo italiano ha decreto lo stato di emergenza nazionale (e ha fatto benissimo, perché anche una sola vita, anche evitare un solo contagio, non ha prezzo).
Fatta questa premessa, proviamo a parlare di economia. Certo i primi a subirne le conseguenze saranno i cinesi, quelli di Pechino e quelli emigrati nei quattro angoli del Pianeta. Basta gettare un’occhiata nei ristoranti cinesi in questi giorni, dove non occorre certo prenotare. Ma i cinesi non saranno i soli a essere colpiti dal “cigno nero” del coronavirus, come lo definirebbe il matematico Nassim Noicholas Taleb, teorico dell’imponderabile in economia. A perderci siamo tutti (a parte forse le aziende che producono mascherine).
Alla fine, calcolano gli economisti, l’impatto del coronavirus sulla Cina potrebbe costare un punto di Pil per il Paese del Dragone ma anche fino a 0,3 punti per l’economia globale. L’interdipendenza economica oggi è un dato di fatto. Se si ferma la Cina, rallenta il mondo. Lo si è visto con i listini di Borsa, crollati più volte, anche se il virus non è ancora entrato nella sua fase parossistica e non si sa quando raggiungerà il suo picco. Aggiungiamo il turismo, che da almeno una decina d’anni in Italia è in grandissima espansione. Confesercenti ha stimato nei primi nove mesi del 2018 una spesa di 626 milioni di euro da parte dei turisti con gli occhi a mandorla. E ora? Alberghi, ristoranti, imprese di prodotti di lusso e moda pagheranno conseguenze importanti, lo stop si farà sentire.
Vi è poi la questione degli scambi commerciali. Il consumatore cinese è diventato un fattore di crescita molto più importante per le aziende commerciali di un tempo. Per stare alla sola Lombardia l’interscambio era in continua crescita, con un import di dieci miliardi di euro e un export di tre miliardi. Le nostre oltre 1.700 imprese presenti in Cina sono in difficoltà per via dell’enorme cordone sanitario che circonda il gigantesco Paese. Per il fitto reticolo di aziende ed esercizi presenti in Italia, poi, le conseguenze sono ancora più gravi. La psicosi induce a non entrare più in un bar gestito da cinesi, a evitare un parrucchiere cinese, a non recarsi negli esercizi di estetica cinese, come quelli degli smalti per le unghie. Non si tratta di xenofobia (ci sarà qualche eccezione, irrilevante sul piano generale) ma di prudenza, beninteso. Che però produce conseguenze negative. Ci sono 50 mila piccoli imprenditori cinesi che lavorano, producono, si riforniscono e consumano in Italia, spesso dando lavoro ad italiani. Gli effetti sull’indotto si vedranno presto.
Prima o poi il Paese del Dragone ce la farà a rientrare con i danni economici, come fece al tempo della Sars. E a quel punto sarà bene farci trovare preparati, a sfruttare un’occasione preziosa. Non si tratta di evitare atteggiamenti xenofobi, che nei confronti degli amici cinesi, che in Italia per fortuna sono trascurabili (almeno al momento). E nemmeno di rinunciare alle precauzioni dettate dal ministero della Salute e dal’Organizzazione mondiale della sanità.
Qui parliamo dell’aspetto economico. Pensando soprattutto al futuro - dovremmo studiare forme di facilitazione fiscali e commerciali di vario tipo per le imprese cinesi, in modo da aiutare tutto il sistema a superare questo difficile periodo. Il popolo della Muraglia in questo momento si sente solo e isolato rispetto agli altri tre quarti di mondo. E fare in modo che quando il Dragone si riprenderà (perché questo è sicuro) si ricordi che gli siamo stati vicini in tempi difficili, potrebbe essere molto vantaggioso, oltre che umano.