Stasera in prima serata su Rai 1, nell'anniversario dell'attentato compiuto il 16 febbraio 1979, va in onda Era in guerra ma non lo sapevo, film che racconta la storia di Pierluigi Torregiani (interpretato da un bravissimo Francesco Montanari), il gioielliere milanese ucciso davanti al suo negozio da un commando dei Proletari armati per il comunismo, organizzazione di cui Cesare Battisti era uno dei capi. Abbiamo incontrato il figlio Alberto Torregiani nella villetta isolata nella campagna novarese dove vive. «Ho scelto di tornare qui, dove sono nato, perché nel mio quartiere milanese per tutti ero diventato il figlio del gioielliere Torregiani finito in carrozzina».
Venticinque giorni prima dell'agguato mortale, Torregiani era stato vittima di una rapina mentre si trovava in un ristorante. Uno dei malviventi fu ucciso. Non da lui, ma tanto bastò per trasformarlo su alcuni giornali in uno sceriffo che si fa giustizia da sé e, per i terroristi, in un agente del capitalismo contro le masse oppresse e, in quanto tale, da eliminare. Quel pomeriggio del 1979 Torregiani, nel tentativo di difendersi dai killer, sparò con la sua pistola un proiettile che invece colpì alla schiena suo figlio, lasciandolo paralizzato. «Un peso troppo grande da portare, specie nei primi anni», ricorda Alberto. «Per questo mi sono riappropriato del cognome dei miei genitori naturali, Tabrazzi. Così ho potuto vivere una vita tranquilla da impiegato comunale. Se conoscevo una persona e il discorso cadeva sulla mia sedia a rotelle, potevo cavarmela dicendo che un’auto mi aveva investito. Ma a un certo punto il carico emotivo che mi tenevo dentro per quanto mi era successo e la rabbia per una giustizia che non arrivava mi hanno spinto a uscire allo scoperto».
Cosa spinse suo padre ad adottare lei e le sue due sorelle?
«Lui e mia madre non potevano avere figli, ma li desideravano tantissimo. In un ospedale, dove era ricoverato per un tumore, conobbe la mia madre biologica, che era già vedova. Lui guarì, lei invece morì, ma prima lui le promise che si sarebbe occupato di noi. E così ha fatto. A quell’epoca aveva solo un piccolo negozietto e il desiderio di allargarsi. Razionalmente, prendersi la responsabilità di tre bambini era la cosa peggiore che potesse fare per realizzare questo progetto. Invece lui pensò: “Ho tre bocche in più da sfamare e allora devo darmi ancora di più da fare”».
Questo atto d’amore stride con l’immagine di suo padre che si vede nel film: un uomo che dedica tutto sé stesso al lavoro, trascurando la famiglia, il classico “bauscia milanese”, come lo definisce la moglie. Era davvero così?
«Dava anima e corpo al lavoro, è vero. Quando finiva le otto ore in negozio, ne passava altre a casa a riparare orologi e a esaminare disegni di nuovi gioielli. E poi c’era l’impegno con le televendite. Ma non era un padre assente. Era molto severo e non ammetteva discussioni su questioni che per lui erano futili, perché ripeteva che non aveva tempo da perdere. Ognuno di noi aveva dei precisi compiti da rispettare. Io dovevo andare bene a scuola, altrimenti potevo scordarmi le partite a calcio, le uscite con gli amici, il motorino. Era un padre tipico di quei tempi».
Dopo la rapina al ristorante, vi arrivarono minacce sempre più pesanti, tanto che vi fu assegnata una scorta. Nel film vostro padre sembra non rendersi conto di tutto questo e soprattutto sembra non capire che in gioco c’era non solo la sua vita, ma anche la vostra.
«In quel periodo erano molto frequenti i sequestri. E mio padre aveva il terrore che potesse capitare a me. Quando uscivo, voleva sempre sapere tutto. Sulle minacce, invece, si era convinto che poteva gestire la cosa da solo e comunque, in ogni caso, gli era chiaro che l’obiettivo sarebbe stato solo lui perché i terroristi agivano così: colpivano i loro obiettivi, non i familiari».
Tuttavia, quel pomeriggio ci andò di mezzo lei, che aveva appena 15 anni. La scorta vi avvisò che avrebbe ritardato e suo padre, anziché attenderla, decise di andare in negozio portando lei e sua sorella con sé. In tutti questi anni non ha mai pensato: «Papà, è colpa tua se sono ridotto così»?
«Mille volte, mille volte. Ma è facile quando succedono tragedie come la mia dare la colpa a qualcuno. Io ho cercato invece di mettermi nei panni non solo di mio padre, ma anche dei terroristi, per cercare di capire quale odio possa spingere un ragazzo di vent’anni a rischiare la sua vita per uccidere un commerciante. Questo mi ha aiutato tantissimo. Per quanto riguarda mio padre, c’è stata anche tanta fatalità. Io non andavo quasi mai con lui in negozio, quel giorno l’avevo fatto perché dopo avrei dovuto incontrarmi con un amico che abitava lì vicino. E la scorta lui l’ha aspettata per un po’. Poi se n’è andato perché nella sua mentalità era inconcepibile che qualche cliente aspettasse fuori dal suo negozio: lui alle 15 doveva aprire. Per cui ci ha detto: “Andiamo, la scorta arriverà subito e ci seguirà”. E infatti è arrivata al negozio quaranta secondi dopo che era successo tutto».
Ha mai incontrato gli assassini di suo padre?
«Sebastiano Masala mi ha chiesto un colloquio per dirmi di aver capito di aver fatto il più tremendo errore della sua vita». Vorrebbe incontrare Cesare Battisti? «No. Sarebbe solo un evento mediatico. Per me la storia si è chiusa quando lui, dopo un anno di carcere, si è finalmente preso le sue responsabilità. Ma non dimentico che ci sono tantissime altre famiglie che non hanno avuto giustizia».