«Una telefonata mi ha svegliato nella notte per comunicarmi che ero cardinale, ecco come l’ho saputo. Un amico dall’Italia ha sentito il Papa fare il mio nome all’Angelus e mi ha avvisato». È spontaneo e ancora sorpreso, monsignor Alvaro Ramazzini, per la decisione di papa Francesco di nominarlo cardinale. «Credevo che mi avvisassero, per esempio dalla Segreteria di Stato, invece è stata una notizia inaspettata», ci racconta mentre aiuta l’anziana mamma che da un paio di anni vive con lui.
Nella diocesi di Huehuetenango in Guatemala, il neocardinale, nato il 16 luglio del 1947, continua ad affrontare i suoi impegni di sempre: ricevere le visite della gente, organizzare gli incontri con i giovani e la programmazione per la pastorale sociale.
Siamo in un’area montuosa dell’America centrale, dove le cime superano i 3 mila metri, adagiata tra la capitale, Città del Guatemala, e il Messico. Non lontano ci sono le straordinarie rovine della civiltà Maya, testimonianza di un popolo importante i cui discendenti oggi vivono una forte crisi sociale. Il contesto in cui si trova il Paese è uno dei più difficili dell’America: il Guatemala è una miniera di bellezze naturali e archeologiche, ma tormentato da enormi problemi, primo fra tutti quello della povertà della popolazione, in buona parte indigena, emarginata e relegata a non contare nulla. Il 46,5% dei bambini dai 0 ai 5 anni soffre di malnutrizione: sono soprattutto indios e poveri, disseminati in tutto il Paese. Nove persone su 10 lavorano nei campi, con sistemi poco produttivi.
Quasi la metà dei guatemaltechi si sposta ogni anno per sei mesi in Messico a raccogliere caffè 12 ore al giorno per 4 euro, mentre i più fortunati sognano di andare negli Stati Uniti. Con l’inasprimento della politica migratoria del presidente Trump, questa opzione è diventata difficile. Oltre al muro di confine che avanza appena il Congresso autorizza i finanziamenti, i rimpatri dagli Usa continuano senza sosta, mentre la Guardia nazionale rende quasi impossibile il passaggio degli “indocumentati”. In molti cercano di attraversare il Messico aggrappati al tetto di un treno merci, “la Bestia”: un viaggio che causa spesso dei morti. È questo il panorama in cui opera monsignor Ramazzini, origini italiane e cuore guatemalteco, uno dei 13 ecclesiastici cui il 5 ottobre papa Francesco consegnerà la berretta cardinalizia. Una data simbolica perché vigilia dell’apertura del Sinodo dei vescovi dedicato all’Amazzonia e all’inizio del Mese missionario straordinario.
Alvaro Ramazzini, Ambasciatore della Pace e cardinale
Come mai è diventato prete?
«In quarta elementare la maestra invitò un frate domenicano a parlarci della salvezza delle anime. Rimasi colpito dall’affermazione che essere sacerdote avrebbe contribuito a questa missione. Terminate le scuole, dovevo iscrivermi alle superiori e passammo con mamma davanti al seminario di Città del Guatemala. Era vicino alla chiesa della Madonna del Carmine, la mia protettrice. Entrammo e, dopo una chiacchierata, il sacerdote mi disse: ti aspettiamo presto. Studiai filosofia in Guatemala e teologia a Merida, in Messico».
Le sue origini sono italiane: è un emigrato anche lei?
«In effetti è così», risponde ridendo. «La mia famiglia arriva dalla Lombardia, dal Bresciano, non lontano dal lago di Garda. Appena ho avuto la possibilità, sono andato in Italia. Nel 1976 alla Gregoriana ho studiato Diritto canonico e ho perfezionato l’italiano, anche perché, se posso, amo esprimermi con la lingua dell’interlocutore». La corruzione diffusa, tanta emigrazione, la carenza di cure per i poveri: sono tanti i bisogni del guatemala. Da dove iniziare?
«Il punto è impegnarsi affinché si esca dalla miseria e dalla povertà. Crede veramente che i guatemaltechi amino lasciare la loro calda terra, andare a vivere in città lontane, piene di neve, dove non capiscono neppure la lingua? Inoltre avere a che fare magari con persone diffidenti o razziste, con il rischio di essere rimpatriati, aumenta il disagio. L’ho sperimentato pochi mesi fa, quando sono andato a trovarli negli Usa. Sono vittime di un sistema neoliberista che produce questi frutti. Emigrazione e povertà crescono unite, una in conseguenza dell’altra. Se non ci impegniamo come Paese per diminuire la miseria, avremo sempre carovane di migranti che lasciano i villaggi in cerca di lavoro».
Qual è stato il suo impegno come pastore della chiesa di fronte a queste necessità?
«Appena nominato vescovo nella diocesi di San Marcos, nel 1988, ho fondato la Pastorale della terra, un lavoro intenso per la valorizzazione delle risorse agricole, una ricchezza che può migliorare la vita a tante persone. Anche la dignità del lavoratore andava valorizzata. Con la Casa del Migrante è iniziata la tutela soprattutto per i migranti minori non accompagnati. Da anni ho un programma radiofonico alle 7 del mattino su Vangelo e coscienza sociale: camminano assieme, questo ce lo insegna san Paolo VI».
Per questo motivo a San Sarcos lei ha ricevuto minacce?
«Tutelavo i diritti dei contadini, lottavo per la riforma agraria, per la difesa del popolo Maya. Iniziammo a studiare l’impatto ambientale delle miniere, le conseguenze sulla salute della gente e sulla natura. Era il mio impegno di pastore, non potevo tirarmi indietro, dovevo sostenere i senza voce e la salvaguardia della natura, un bene che invece di proteggere, stiamo distruggendo».
Nel 2010 è stato nominato Ambasciatore della pace e premiato per il suo impegno in favore dei diritti umani. vi è qualche altro tema che le sta a cuore?
«Certo, i carcerati. Vivono in condizioni indegne. In una cella di media grandezza rinchiudono anche 80-85 persone, con un solo bagno: è impensabile. Con un sacerdote Mercedario (un ordine religioso nato originariamente per il riscatto degli schiavi, ndr) cerchiamo di visitarli proponendo una riforma delle prigioni e del metodo di reclusione. Perché lo faccio? Ho chiaro in mente il Vangelo di Matteo 25,36: “Ero carcerato…”. È un atto di misericordia».
La misericordia è un tema caro a papa Francesco. Lei lo ha conosciuto prima che diventasse Pontefice.
«Sì, in occasione di un incontro con la Conferenza episcopale argentina, e poi ci siamo ritrovati in Brasile, al santuario di Aparecida (dove nel 2007 si è svolta la Quinta conferenza episcopale latinoamericana che con il contributo significativo del cardinale Bergoglio ha elaborato le linee comuni per la missione nel Continente, ndr). La sua elezione è stata una sorpresa, anche perché, da persona abbastanza silenziosa, si è rivelato un comunicatore e una guida preziosa per la Chiesa. Sono al 100% in sintonia con lui, non solo con il suo pensiero, ma anche con i suoi gesti, semplici e diretti. Comportamenti e idee in cui mi rivedo e mi ritrovo in maniera naturale».
Con la nomina a cardinale, che cosa cambia per lei adesso?
«Devo continuare ancora più intensamente la mia missione, poiché credo che questa nomina è una conferma per l’impegno iniziato, oltre a un gesto di affetto del Pontefice per il mio Paese. Un desiderio? La riforma agraria, magari accompagnata dalla visita del Papa in Guatemala».
La parola chiave: cardinale
I cardinali sono i prelati che hanno diritto di partecipare al Conclave nel quale si elegge il Pontefice. Collaborano inoltre con il vescovo di Roma come suoi consiglieri, riunendosi periodicamente in Concistoro. I cardinali vengono scelti dal Papa e la loro carica è a vita. Tuttavia, secondo quanto stabilito da papa Paolo VI, compiuti gli 80 anni non possono più entrare in Conclave. Per questo, prima di compiere 80 anni sono definiti “cardinali elettori”. Vengono chiamati anche “porporati” perché indossano una veste rosso porpora che ricorda la loro vocazione di fedeltà al Papa fino al martirio. Con i nuovi 13, ora i cardinali sono 213, dei quali 118 elettori. La nazionalità più rappresentata è quella italiana (41 cardinali, dei quali 22 elettori), seguita da quella spagnola (13) e, alla pari, da quella francese e polacca (6). Nel collegio cardinalizio vi sono alcune funzioni specifiche: il cardinale decano, attualmente Angelo Sodano, presiede il collegio; il cardinale camerlengo, lo statunitense Kevin Joseph Farrell, regge la Santa Sede in caso di morte o rinuncia del Pontefice; il cardinale protodiacono, Renato Martino, annuncia il nome del nuovo Papa dalla loggia di San Pietro con la formula «Habemus papam».
Chi sono i 13 nuovi cardinali?
Il 5 ottobre in San Pietro Francesco creerà 13 nuovi cardinali. Dieci elettori e tre ultraottantenni. Due sono italiani: l’arcivescovo di Bologna, Matteo Zuppi, e il missionario di origine veronese Eugenio Dal Corso, vescovo emerito in Angola. Dall’America latina, oltre a monsignor Ramazzini, proviene anche il cubano Juan de la Caridad García Rodríguez. Ci sono poi l’indonesiano Ignatius Suharyo Hardjoatmodjo, il congolese Fridolin Ambongo Besungu, il lussemburghese Jean-Claude Höllerich, lo spagnolo (ma vescovo in Marocco) Cristóbal López Romero. Il lituano Sigitas Tamkevičius è stato prigioniero nelle carceri comuniste. Gli altri lavorano per la Santa Sede: il poeta José Tolentino Mendonça, il delegato del Papa per i migranti Michael Czerny, il responsabile del dialogo interreligioso Miguel Ángel Ayuso Guixot e il suo predecessore Michael Fitzgerald.
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