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Alle 8.15 del 6 agosto 1945, un ordigno tozzo e panciuto, lungo tre metri, pesante 4 tonnellate e dal nomignolo beffardo di Little Boy, ragazzino, venne sganciato nel cielo limpido di Hiroshima dal B-29 Enola Gay (il nome della madre del pilota Paul Tibbets). Non era di tipo convenzionale, bensì atomico, progettato per sprigionare l’energia dalla materia, secondo la celebre equazione di Einstein. Quando venne innescata, a 500 metri d’altezza, provocò in un milionesimo di secondo una serie di reazioni a catena incontrollabili, equivalente a 15 mila tonnellate di tritolo. Il cielo brillò come un lampo di rosa e azzurro. Un’enorme palla di fuoco bruciò vivo qualunque essere vivente nel raggio di un chilometro e mezzo. Le vittime immediate di quell’Apocalisse – incenerite o spellate vive – furono 70 mila, ma negli anni per le conseguenze delle ferite e delle radiazioni arrivarono a 150 mila, condannando i sopravvissuti a una morte lenta e dolorosa per vomito, diarrea e per emorragie intestinali, gengivali e nasali. Il 9 agosto fu la volta di Nagasaki.
I due ordigni – destinati inizialmente al Terzo Reich – erano stati fabbricati nei laboratori di Los Alamos, nel Nuovo Messico, sotto la direzione del fisico di Berkeley J. Robert Oppenheimer, a capo di una schiera dei più illustri scienziati del mondo (la prima reazione a catena venne creata dall’équipe dell’italiano Enrico Fermi in uno stadio dismesso di Chicago). Come scrive Richard Overy nella lucida e accurata ricostruzione della tragedia di Hiroshima e Nagasaki (Pioggia di distruzione, Einaudi), il presidente americano Roosevelt recepì per primo l’importanza del Progetto Manhattan, mentre Churchill sottovalutò le sue potenzialità distruttive.
Le due bombe, messe a punto proprio mentre gli alleati erano riuniti alla conferenza nel castello di Potsdam, in Germania, dal 17 luglio al 3 agosto, erano state progettate per cadere «sulle città, non sugli eserciti», come il premier inglese rivelò al proprio medico personale, Lord Moran. Il 10 agosto, alla radio, pochi giorni dopo Hiroshima, Harry Truman, subentrato a Roosevelt, garantì che erano state sganciate su obiettivi militari. Era una menzogna. In realtà la strategia di colpire i civili per fiaccare il morale della popolazione e dei militari era già in atto da tempo: basterebbe citare i terribili attacchi con bombe incendiarie su Dresda e su Tokyo (quest’ultimo aveva provocato 100 mila vittime e un milione di sfollati). La prima domanda che ci si pone su Hiroshima è: «Era necessario?». O meglio: «Perché all’epoca si pensava fosse necessario?». Se analizziamo le testimonianze e i documenti di allora la prima preoccupazione era quella di accelerare la fine della guerra ed evitare un futuro bagno di sangue dei soldati statunitensi. La sola campagna dell’arcipelago di Okinawa aveva provocato 12.520 marines morti. In caso di invasione del Giappone le stime variavano da 500 mila a un milione di vittime americane tra morti e feriti.
Era infatti impensabile una resa dell’esercito nipponico, che aveva già spostato 600 mila uomini sulle fasce costiere dell’Isola in attesa di uno sbarco americano. Quella di arrendersi non era nemmeno un’opzione considerata. Tutti i civili si consideravano pronti alla battaglia finale in base a un piano di mobilitazione nazionale: «Non ci sono civili in Giappone», spiegava un rapporto dei servizi segreti americani. I kamikaze rappresentavano un modello della vocazione naturale e fanatica di morire per l’imperatore. E così, quando la conferenza di Potsdam si concluse con la richiesta di una resa incondizionata, pena la «distruzione immediata e totale» del Giappone, Tokyo la ignorò e Truman confermò l’operazione.
Per gli storici c’è anche una causa geopolitica. La Russia stava per invadere a sua volta il Sol Levante. Bisognava agire al più presto per limitare le ambizioni sovietiche sullo scacchiere asiatico. Nel maggio 1945, il Target Committee, la commissione militare del Progetto Manhattan, stilò un elenco di obiettivi: Hiroshima, Kyoto, Yokohama, Kokura e Niigata. Successivamente Kyoto venne rimossa per motivi artistici e culturali su richiesta del segretario alla Guerra Henry L. Stimson, che c’era stato in viaggio di nozze, e Nagasaki fu aggiunta. Perché anche Nagasaki? Gli americani non avevano mai pensato a una sola bomba ma una serie di attacchi nucleari finché il Giappone si fosse arreso. Una strategia spietata, in cui si intrecciarono esigenze militari e calcoli geopolitici e che svela l’abisso senza fine di follia e brutalità in cui l’uomo precipita in guerra, pur travestito da essere razionale. La decisione finale spettò a Truman. Iniziava l’era nucleare, che Churchill in un discorso in Parlamento descrisse come «l’epoca orrenda in cui la sicurezza sarà una figlia robusta del terrore e la sopravvivenza la sorella gemella dell’annientamento».
(Foto Ansa: un bambino cammina di fronte a un'immagine di Hiroshima devastata dalla bomba atomica nel Peace memorial museum)



