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mercoledì 16 luglio 2025
 
il racconto
 

Rock (e politica), Bruce Springsteen a San Siro attacca Trump e unisce tre generazioni

01/07/2025  Nel catino bollente del Meazza, a quarant’anni dal primo concerto in Italia, il ritorno del Boss che attacca Donald Trump e il trumpismo: «Siamo stati preoccupati, ma ora siamo spaventati» e invita tutti a «far sentire la propria voce contro l’autoritarismo». Una cavalcata di tre ore filate da "No Surrender" e "My Love Will Not Let You Down" fino a "I’m on fire" e "Born in the Usa". Con una promessa: «Sopravviveremo a questo momento»

Negli anni Sessanta e Settanta tutto era politica, a cominciare dalla musica. Oggi niente, forse, è politica. O ci illudiamo che sia così, persi come siamo tra uno scrolling infinito sui social, diserzione in massa delle urne e finiti a dialogare con ChatGPT su questioni esistenziali.

Poi arriva lui, Bruce Springsteen, e in un concerto di tre ore filate nel catino bollente di San Siro tutto sold out – penultima tappa del tour europeo che chiude giovedì, sempre a Milano – rimette al centro la politica. Attacca Donald Trump, certo, ma non solo.

Canta e prova a rilanciare la politica come speranza per il futuro, come terreno sacro dei diritti, come rispetto dei più deboli, come voce di chi non ha voce, come prosecuzione del sogno (americano) con le armi, perfettibili, del dibattito, della democrazia, della libertà di critica e non dell’esibizione della ferocia e dall’ostentazione dei soldi.

Su un palco essenziale, con le bandiere americana e italiana issate alla sommità, il Boss non ha bisogno di spettacoli fantasmagorici, effetti speciali, fuochi d’artificio, ballerini e paillettes, bastano il suo gilet, la chitarra e la voce graffiante per trascinare i quasi sessantamila di San Siro dove i capelli bianchi sono una foltissima rappresentanza.

Sì, perché tra le altre cose – e scusate se è poco – Bruce Springsteen ha questa straordinaria capacità che molti leader non hanno più: unire le generazioni. Genitori e figli, nonni, zii e nipoti. I boomer e la Generazione Z, chi è cresciuto a mangiadischi e chi con YouTube e TikTok. Accanto a me c’era un bambino di 3 anni che si divertiva nonostante le cuffie. Poco più sotto, una coppia di nonni aveva in braccio un bimbo di dieci mesi, anche lui con tanto di cuffie. Perché nei concerti di Bruce Springsteen bisogna immergersi già da neonati per sentire l’atmosfera, assaporare il gusto, dire “io c’ero”.

Pronti, via e quando ancora non è calata la sera, si parte con il rock epico e tirato di No Surrender e My Love Will Not Let You Down, due brani quasi gemelli dell’era Born in the USA quando il Boss duellava e polemizzava con Ronald Reagan che provò ad assoldarlo non capendo che quel brano raccontava un’America diversa da quella edonista degli anni Ottanta.

Sul palco c’è anche Stevie Van Zandt, in forte dubbio dopo l’operazione di appendicite a cui è stato sottoposto una decina di giorni fa in Spagna, che lo ha costretto a saltare due date in Germania. Il pirata è lì, tiene botta, anche se con meno duetti spalla a spalla a cui ci aveva abituati.

Un avvio quasi obbligato perché il ritorno del Boss a San Siro coincide anche con il quarantesimo anniversario del primo, memorabile concerto in Italia, quello del 21 giugno 1985, sempre qui a San Siro. Un concerto che è divenuto un marchio d’identità, un motivo d’orgoglio, il sigillo di appartenenza per un’intera generazione che ha potuto dire “Io c’ero” e ne ha trasmesso il fuoco ai figli e ai figli dei figli.

Poi, prima di Land of Hope and Dreams Bruce come ogni tappa di questo tour si rivolge alla folla con parole nette, semplici ma pesate: «Casa mia, l’America che amo, l’America di cui ho scritto, che è stata un faro di speranza e libertà per 250 anni, è attualmente nelle mani di un’amministrazione corrotta, incompetente e traditrice». Altro che MAGA, il Boss canta l’America «terra della speranza e dei sogni», come da titolo del tour e dell’omonima canzone.

A tutti Bruce chiede di «far sentire la propria voce contro l’autoritarismo». E via con il classico one two three four mentre la E Street band affonda di nuovo il colpo. Ora è la volta di Rainmaker, brano nato ai tempi di Bush figlio, e dedicata al «caro leader americano» di oggi. Il testo, sottotitolato in italiano come per altre canzoni le cui parole fanno il racconto, è un altro attacco a Trump dipinto come un incantatore di serpenti, uno che promette la pioggia (dicesi: pace) per salvare i raccolti, un leader a metà tra la magia e la demagogia.

I fan ascoltano, cantano più che riprendere ossessivamente con gli smartphone. «Adesso stanno accadendo delle cose che alterano la vera natura della democrazia dei nostri Paesi e sono troppo importanti per essere ignorate», dice il Boss, «in America, casa mia, stanno perseguitando le persone che esercitano la libertà di parola e danno voce al loro dissenso. Questo sta succedendo adesso. Gli uomini più ricchi trovano soddisfazione nell'abbandonare i bambini più poveri al mondo alla malattia e morte. Nel mio Paese stanno godendo in modo sadico del dolore inflitto ad onesti lavoratori americani».

Un comizio? No, perché c’è sempre il rock and roll a tenere insieme sogno e invettiva, racconto e speranza, passato, presente e futuro.

Bruce Springsteen, a dispetto dei suoi 75 anni, corre lungo il palco, si avvicina ai fans delle prime file, a uno regala la sua armonica, a un altro autografa la maglietta. Si diverte, trascina e ammalia, smentendo, ancora una volta, i suoi detrattori che dicono che non ha inventato niente e che accusa noi springsteeniani di essere una setta di boomer devota al culto acritico della personalità di un onesto rimasticatore della tradizione americana. Ecco, non hanno capito l’essenza del Boss. E forse neanche del rock.

«A Dublino, in Irlanda, sapevo di cosa stava parlando. Ecco uno che aveva dentro di sé Brando, Dylan ed Elvis. Un John Steinbeck che cantava, un Van Morrison su una Harley-Davidson, ma era anche qualcosa di nuovo. Era l’anticipazione di Scorsese, il primo spunto per Patti Smith, Elvis Costello e i Clash», ha detto di lui Bono Vox, il leader degli U2.

Prima di intonare My City of Ruins dice ai suoi fan che no, lui non s’è sbagliato, e non si sono sbagliati quanti hanno creduto nel sogno americano: «L’America di cui ho cantato per voi per circa 50 anni è reale indipendentemente da tutti i suoi difetti: è un Paese incredibile con persone incredibili. Sopravvivremo a questo momento», scandisce, «ho speranza perché credo nella verità enunciata dal grande scrittore americano James Baldwin: "In queste mondo non c'è tutta l'umanità che si vorrebbe esistesse, ma ce n'è abbastanza"».

Rispolvera Long Walk Home, brano scritto per esprimere il dissenso per l’ex presidente americano George W. Bush e il suo stupore per il fatto che amici e vicini potessero averlo votato. Prima di cantarla il Boss ha spiegato che «questa è una preghiera per il mio Paese». E prima di intonare in assolo House of a Thousand Guitars ha fatto un appello «ai valori condivisi della democrazia, unica arma possibile contro l’autoritarismo».

Adesso la notte bollente di San Siro diventa intimista con il desiderio di I’m on Fire, che non era in scaletta. E come non bastasse, il Boss piazza Because The Night con il solito assolo di Nils Lofgren.

Arrivano l’inno Badlands a far saltare San Siro, una Born in the USA che ormai non può essere più fraintesa. Lo stadio si illumina a giorno per l’opera rock che è la summa della poetica springsteeniana (e anche la sua canzone preferita): Born to Run.

Bobby Jean celebra ancora una volta l’amicizia, Dancing in the Dark rievoca gli anni Ottanta e la prima volta di Springsteen in questo stadio dove è venuto per nove volte. L’epilogo sono due cover di Twist and Shout per tirare fuori le ultime energie (ma i fan sarebbero andati avanti altre tre ore) e poi Chimes of Freedom di Bob Dylan, una chicca dello Springsteen 2025 e conclusione perfetta del concerto, con l’allievo che canta le parole del maestro sulle «campane di libertà che si illuminano per le schiere dei confusi, maltrattati e disillusi».

Il rock and roll non è finito, il sogno americano neppure, anche se noi non ci sentiamo tanto bene.

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