(Foto Ansa/Alessandro Bianchi: Alberto Cairo nella sede della Croce rossa internazonale a Kabul in un'immgine di alcuni anni fa)
«Con i talebani non solo si può, ma si deve dialogare. Uno degli errori commessi all’inizio degli anni Duemila è stato quello di volersi contrapporre frontalmente a loro. I talebani e i loro simpatizzanti costituiscono il 25-30% della popolazione. Sappiamo bene che si sono macchiati di crimini orrendi. Ma esistono frange più morbide, occorrerebbe cominciare interpellando quelle».
Chi parla è uno che l’Afghanistan e i talebani li conosce bene. Nativo di Ceva (Cuneo), laureato in Legge a Torino, diventato fisioterapista per vocazione, Alberto Cairo, cattolico, ha trascorso gli ultimi 31 dei suoi 69 anni a Kabul per conto della Croce rossa internazionale. E, insieme con i suoi collaboratori, ha rimesso in piedi - nel senso letterale del termine - ben 210 mila disabili. L’abbiamo intervistato a poche ore dal terribile attentato che ha squassato Kabul, provocando un centinaio di morti e moltissimi feriti.
Cairo non ha dubbi: «Ormai i talebani hanno in mano il Paese e temo che il loro regime resisterà a lungo. C’è quindi da augurarsi che sia meno rigido e più aperto di prima e che i suoi leader capiscano che non si può governare un Paese con la repressione e basta. La comunità internazionale dovrà vigilare che i diritti vengano tutelati e, allo stesso tempo, deve fare tutto quel che si può per instaurare relazioni costruttive con i talebani». Poi precisa: «Io non sono un politico, ma questa mi pare la via più di buon senso. Del resto, 42 anni di guerra – a partire dall’invasione sovietica del 1979 – a cos’hanno portato? A nulla. Anzi: siamo al punto di partenza, ma con molto più odio tra i diversi gruppi etnici, un’animosità terribile tra pashtun e gli altri. Un risultato proprio della guerra».
Quando gli ricordo che Ettore Mo, grande inviato del Corriere della sera, scrisse: «La pace non è fatta per gli afgani», replica: «Gli afgani sono gente bellicosa di carattere, tendono a scontrarsi facilmente: prima di discutere fanno a pugni (basta vedere quando accade un incidente stradale). Questa è la loro indole. Ma se l’Occidente la cavalca strumentalmente, non si andrà da nessuna parte. Ricordo bene le parole di Bush all’indomani dell’11 settembre: “Staneremo i talebani dalle loro caverne”. Odio puro! Vent’anni dopo, mi chiedo: a che cosa ha portato? Gli americani oggi se ne vanno dall’Afghanistan con la coda tra le gambe».
Chiedo a Cairo come vive queste ore drammatiche e la risposta è intrisa di un’amarezza infinita: «Provo tantissima tristezza perché non ho mai visto la gente così confusa e disperata. Stanno partendo in tantissimi, compresa gente che qui ha un lavoro e un futuro. Negli ultimi giorni abbiamo perso una decina di collaboratori, tra cui ragazze preparate, molto brave, giovani, fisioterapiste, tecniche ortopediche... ». Continua: «Assistiamo a un vero e proprio esodo di cervelli. Queste che partono sono persone che hanno studiato, persone aperte, con un senso civico e una sensibilità per i diritti umani. Gente su cui il Paese avrebbe potuto contare per rinascere. Ora, come sarà riempito questo vuoto? Quali direttive daranno i talebani? Io so solo che se negli ospedali togliessero le ragazze sarebbe drammatico! E se le scuole non saranno garantite, come potrà avvenire la formazione del personale?».
Il messaggio finale è un appello a non dimenticare l’Afghanistan nell’ora più buia. «È necessario che le organizzazioni umanitarie possano continuare ad operare, che siano loro garantiti i fondi necessari e via di questo passo. Ad ogni crisi politica segue sempre una economica: l’Afghanistan, che già viveva una situazione molto precaria, ora la paga cara. Ogni giorno vedo gente che viene a chiedere lavoro, tantissimi sono i disoccupati. Tra un po’ l’interesse sul Paese si spegnerà, con il rischio concreto che la condizione del popolo peggiori ulteriormente. Diventa fondamentale, quindi, che l’attenzione sull’Afghanistan rimanga viva».