Più glamour che belle pellicole in queste prime 72 ore del Festival di Cannes. Apertura alla grande, malgrado il film La te^te haute di Emmanuelle Bercot, sulla difficile educazione di un ragazzino ribelle, sia parso più didascalico che ispirato (voto 4). In fondo, il titolo era fuori concorso e ha avuto il merito di riportare al Palais l'eterna Catherine Deneuve, vestita in perfetto rosso fuoco e commossa per la standing ovation riservatale dai critici e dagli spettatori.
Piena poi di star e starlette la serata inaugurale: su tutte, la minuta Natalie Portman, famosa per la saga di Guerre Stellari e per l'Oscar vinto con Black Swann, ma qui in Francia amatissima perché compagna dell'attore Benjamin Millepied e perché presto interpreterà Jacqueline Kennedy in Jackie di Pablo Larrain.
La partenza della gara per la Palma d'oro di questa 68a  edizione è  stata una mezza delusione. Our little sister del nipponico Kore-Eda Hirokazu è la storia di tre sorelle che ai funerali del padre, che non vedevano da 15 anni, scoprono di avere una sorellastra appena adolescente, rimasta totalmente orfana. Le tre decidono di “adottarla” e la portano nella grande casa di famiglia a Kamakura, vale a dire la più profonda e tradizionale provincia giapponese. Da questo momento, sullo schermo è un'esplosione di “giapponesità” pura: tocchi letterari e fanciulle in boccio, funerali e ciliegi in fiore, discorsi sulla vita e sulla morte. Solo per riaffermare un ideale di famiglia assai zen, purtroppo fuori dal mondo. Grande eleganza formale, ma con un forte sapore di déjà-vu. Se conoscete un luogo comune sul Giappone, qui lo ritrovate di certo. Bello, ma a che pro? Voto, per la serendipity: 5.
E' andata perfino peggio con il greco Yorgos Lanthimos, preceduto sulla Croisette da un grande strombazzamento in favore della presunta genialità del suo The lobster. La storia,  surreale, incuriosisce per l'incipit: un uomo rimasto vedovo si iscrive a una sorta di spa per la vita di coppia. Siamo in un'amena località britannica immersa nel verde (s'intuisce dalla guida a sinistra) ma la tensione sale quando lo spettatore capisce che il protagonista è obbligato. In questo angoscioso  futuro prossimo venturo, i single sono considerati un pericolo per la società: hanno 45 giorni per rieducarsi e riformare una coppia. L'alternativa è la trasformazione, per legge, in un...  animale (il protagonista, Colin Farrell, sceglie un'aragosta, da qui il titolo). Oppure la fuga, dandosi alla macchia nella vicina foresta. Dove però i single sono braccati come bestie e si impongono a loro volta regole ferree e assurde. Una specie di Fahrenheit 451, con al posto dei libri i sentimenti. Gli esseri umani, dimentichi e incapaci di qualsiasi intima emozione, cercano allora di ricostruire la coppia puntando su miserevoli affinità: lo zoppo sta con chi zoppica, chi canta col compagno che ha una bella voce, chi è miope con chi porta gli occhiali. Allucinante ma, alla lunga, incredibilmente noioso. Voto: 3.      
Molto meglio l'ungherese Laszlo Nemes che rievoca gli orrori di Auschwitz nel suo Il figlio di Saul. Anche questo già visto, l'obiezione che verrebbe spontanea. Il regista però ha il merito di scegliere un'angolazione inusitata: il protagonista, Saul, è infatti uno di quegli ebrei obbligati a far parte del Sonderkommando, il gruppo che assiste i nazisti nella  laboriosa opera di sterminio. Ad esempio, pulendo i forni crematori e rimuovendo le ceneri umane. Solo che un giorno a Saul sembra di riconoscere il proprio figlio, da tempo perso di vista, nel cadavere di un ragazzino. Da quel momento, la sua idea fissa è salvare quel corpo dalle fiamme e dargli degna sepoltura. Ma è possibile, ad Auschwitz? Immagini forti, da girone dantesco.  Altre struggenti. Anche se con qualche prolungato primo piano di troppo sull'attonito protagonista. Difetti veniali per un film che dovrebbe poter strappare un premio nel Palmarès. Magari quella Caméra d'or riservata, ogni anno, alla migliore opera prima. Voto al coraggio: 7.
Reso giusto merito alla pellicola ungherese,  restiamo dell'idea che il miglior titolo visto finora in competizione è Il racconto dei racconti del nostro Matteo Garrone (voto 8). Un caleidoscopio di immagini e personaggi fantastici solo apparentemente distante dalla realtà, perché buono e cattivo nell'essere umano son sempre gli stessi. Lo hanno ben capito i critici anglosassoni. Deborah Young di Hollywood Reporter: “Magnifico, trascinante, una fantastica combinazione di selvagge fantasie e lussureggiante realizzazione”. Peter Debruge di Variety: “Regia prodigiosa”. Sacha Stone di The Wrap: “Un film mozzafiato per chi crede nel potere della fantasia e per ricordare il valore delle favole, che sanno terrorizzare, far riflettere, sognare, divertire”. Considerato che in giuria ci sono registi immaginifici come i fratelli Coen, Xavier Dolan e Benicio Del Toro c'è di che sperare.
Capiamo, comunque, i giornalisti che si sono accalcati in  coda per assistere alle proiezioni fuori concorso. Woddy Allen non ha deluso con il suo L'uomo irrazionale, protagonisti un crepuscolare Joaquin Phoenix e la solare Emma Stone (nuova musa dagli occhi sgranati del regista newyorkese, dopo i successi con Scarlett Johansson). La storia è ancora quella di un assassinio da parte di un insospettabile, mascherato dietro ragioni sociologiche e morali. Insomma, una via di mezzo tra il Match point dello stesso Woody Allen e Delitto per Delitto di Alfred Hitchcock. Con ovvia punizione finale del cinico e disilluso professore di filosofia. Gradevole, voto di stima: 6.         
Ma il vero evento di questo inizio festival è stato l'anteprima di Mad Max: Fury Road. Spettacolare roadmovie post-apocalittico con cui il settantenne australiano George Miller ripropone le gesta dell'eroe che diede fama mondiale, trentacinque anni fa, al giovane Mel Gibson. Al suo posto Tom Hardy, 37 anni, astro nascente britannico che, dopo essere stato il cattivo Bane contro Batman e il neoromantico Locke nell'omonimo film, è ora cercato da registi quali Inarritu e Kathryn Bigelow. Per alcuni, è lui il nuovo Marlon Brando. La cosa curiosa è che i ragazzi impazziranno al cinema per queste due ore di inseguimenti vertiginosi e battaglie fracassone senza immaginare che trattasi di un classico western con cavalli e carovane rimpiazzati da auto truccate, moto, dune baggy mostruosi nonché autobotti corazzate che trasportano acqua, benzina e giovani prigioniere in fuga da una realtà che è un incubo maschilista. A incarnare la redenzione femminile è una Charlize Theron rapata a zero e senza un avambraccio, ma seducente come non mai. La riprova sul red carpet quando, in compagnia di Sean Penn, ha fatto una Montée des Marches da sogno fasciata in un meraviglioso abito Christian Dior color giallo canarino. Film senza voto, ma a lei 10 e lode.