Quando stava per scrivere questa storia Giuseppe Catozzella è inciampato in quella di Samia, la giovane atleta di Mogadiscio immigrata clandestinamente, e l’ha raccontata in Non dirmi che hai paura, libro vincitore del Premio Strega Giovani 2014 ancora in classifica tra i libri più venduti.
Ora lo scrittore torna con il suo nuovo romanzo Il grande futuro pubblicato da Feltrinelli, che racconta la formazione religiosa e militare di un giovane fondamentalista islamico. Il protagonista si chiama Amal ma il suo vero nome è Alì, ed è figlio di un pescatore e di una donna di origini beduine. E’ nato su un’isola sospesa nel tempo e nello spazio dove imperversa la guerra tra l’Esercito Regolare e quello dei Neri. Il ragazzo è stato ribattezzato da sua madre Amal, che in arabo significa speranza, per esser sopravvissuto all’esplosione di una mina. Ma è un cuore cristiano quello che Amal porta in petto e grazie al quale vive, una trasformazione che grava enormemente sulla sua coscienza e lo porterà ad una febbrile e conflittuale ricerca di significato.
Come è nata l’idea di questo libro?
"Quattro anni fa sono andato al confine tra la Somalia e il Kenia per seguire una delle mie ossessioni: il rapporto tra il cristianesimo e quindi la civiltà occidentale da una parte e il mondo dell’Islam dall’altra. In quel territorio c’è un famoso campo di addestramento di giovani fondamentalisti e ho avuto la possibilità di incontrare un ragazzo che ha fatto parte degli al Shabaab. La cosa più difficile è stata guadagnarmi la sua fiducia. Il suo inglese non era perfetto ma neanche pessimo e alla fine siamo riusciti a intenderci, ma la cosa più complicata è stata arrivare a una sua progressiva apertura. Aveva il volto coperto da una kefiah che lasciava intravedere solo gli occhi, due voragini profondissime che parlavano di una frattura incolmabile avvenuta nel suo passato. La sua storia è sostanzialmente quella che racconto nel mio libro, una storia che accomuna molti giovani nati da quelle parti, in villaggi poverissimi, che vedono nell’arruolamento l’unico modo per riscattarsi. Inizialmente Amal cerca il cambiamento avvicinandosi alla religione. La moschea gli offre dei vestiti, del cibo e un’istruzione, ma quando cresce sente che l’educazione religiosa ricevuta non gli basta e decide di imbracciare le armi".
Amal in arabo significa speranza, ma lui porta la guerra in petto perché nel suo petto batte un cuore cristiano, un cuore nemico secondo lui. Spera in qualcosa, nonostante tutto, il cuore di Amal?
"Amal è prima un bambino e poi un ragazzo molto travagliato che nel corso della sua esistenza, spera in tante cose diverse. All’inizio spera in un riscatto sociale, se vogliamo chiamarlo così, o comunque in un riscatto personale e della sua famiglia dalla povertà e dalla miseria. Poi spera di riuscire ad abbracciare un’idea del bene. Quando entra nella moschea per apprendere l’Islam, spera di essere all’altezza della parola del Dio che sta imparando a conoscere. E quando si arruola spera di agire nel bene, ma commette delle enormi atrocità. Infine, dopo aver incontrato l’amore spera di poter tornare a casa e vivere una vita migliore, e così farà".
Tant’è vero che Amal troverà la forza di uscire dalla spirale di violenza anche grazie al matrimonio con una sposa bambina che gli insegna l’amore.
"Assolutamente sì. I militari lo fanno sposare con una ragazzina unicamente perché alla sua morte, e si presuppone che ogni guerriero valoroso debba morire, Amal abbia una discendenza ovvero un figlio maschio che gli succeda. Ma Amal trova l’amore nella sua sposa poco più che bambina, un sentimento che non ha mai provato prima e che gli dà la forza di abbandonare quella vita".
“Il grande futuro” si ambienta in un contesto privo di riferimenti spazio-temporali, una scelta stilistica coraggiosa specie quando si affronta un tema di attualità.
"Ho cercato di staccarmi il più possibile dall’attualità perché la storia che questo ragazzo mi ha affidato era talmente potente, da spingermi a farne una storia universale. Per farlo ho cercato di rendere la storia di Amal una leggenda, una fiaba. Ho trovato ispirazione nei testi sacri e nei classici della letteratura che parlano di guerra e conflitti interiori, come l’Orlando Furioso. Mi interessava molto l’idea di raccontare la parabola della formazione che porta un bambino a diventare un uomo e raccontare la guerra nella sua universalità".
In un passo del tuo libro, Amal definisce la guerra “troppa” ed “eccessiva. Com’è veramente la guerra vista da vicino?
"Non ero mai stato in una zona di guerra e anche se andavo in giro con le autoblindate dell’Onu, la Somalia è stata un’esperienza davvero scioccante. Ma per chi ci è nato in mezzo, la guerra è quotidianità, una quotidianità brutta certo, ma è comunque qualcosa con cui si riesce a fare i conti. Forse proprio il fatto di arrivare a considerarla quotidianità è il sintomo di una rimozione forzata da parte di chi la vive, per cercare di addomesticare qualcosa più grande di tutti noi".
E’ corretto dire che gli eserciti dei Regolari e dei Neri di cui parli, rappresentino i buoni e i cattivi?
"Potremmo dire di sì, anche se la mia esperienza sul campo mi ha insegnato che le differenze sono poche. I Neri e i Regolari in realtà sono gli al Shabaab e l’esercito di African Union, in particolare della missione AMISON, che combatte il fondamentalismo. Ma anche i Regolari che, dal nostro punto di vista, sono i buoni, fanno delle cose terribili nei villaggi. Insomma, la guerra è qualcosa di talmente sporco che non ci sono molte differenze tra l’uno e l’altro".
“Non dirmi che hai paura” ha fatto molta strada e ora la storia di Samia sta per diventare un film. Sei soddisfatto di questo risultato e, soprattutto, te lo aspettavi?
Soddisfatto è dir poco. Sono felicissimo! Dopo due anni il mio libro è ancora in classifica e non me lo aspettavo assolutamente. Sono felicissimo. Il film esce a dicembre del 2017 con una coproduzione italo-francesce e sarà diretto da una bravissima e anche molto conosciuta regista francese. Per ora non posso dire di più.