Come il fratello Riccardo (prossimo direttore musicale della Scala) è figlia d’arte, avendo respirato in casa la musica sin da bambina, grazie soprattutto al padre Luciano, compositore fra i più in vista del ‘900. Cecilia Chailly ha però scelto l’arpa. E con l’arpa ha vissuto l’esperienza del comporre, dell’improvvisazione, della contaminazione dei generi: “Anche se per due anni l’ho accantonata per dedicarmi alla scrittura”, ci dice.
Il suo percorso è costellato di dischi. Da poco è uscito l’ultimo, “Le mie corde” per la Sony, nel quale ritorna al classico. Ci ha raccontato la sua storia, da “personaggio” oltre che da artista: “Il mio primo strumentario lo trovai in casa:perché giocavo con gli strumenti e li preferivo alle bambole. Io amavo il suono sin da piccola. Ed a 5 anni già dissi ai miei che avrei fatto la musicista. La mia è una famiglia di musicisti. Non ho avuto pressioni dai miei, anzi: mi fecero capire che non era una strada semplice. La prima esperienza importante è stata col canto, nel coro della Filarmonica romana, del quale sono diventata presto voce solista. Ma l’arpa l’ho scelta un po’ per caso, un po’ perché mi affascinava e un po’ per un piccolo suggerimento di mia madre. Rielaboravo molto gli insegnamenti ricevuti. E poiché era il periodo della ricerca, a 15, 16 anni ero diventata l’esecutrice delle nuove composizioni degli allievi. L’arpismo in sé non mi piaceva: l’alone barocco, l’idea della musicista vestita di bianco con i pizzi. L’arpa per me era uno strumento per esplorare la musica. Insomma, ero un’”arpista di rottura”.
Quale rapporto si è creato fra lei e lo strumento?
“Per me l’arpa è il vero compagno della mia vita. E attraverso l’arpa ho
comunicato le mie esperienze e le mie emozioni. Non volevo che fosse
uno strumento col quale fare qualche concerto per poi ridurlo ad arredo
da salotto. Per cui sin dal primo Cd ho dato molto spazio ad altri
musicisti di altri generi ma tutti amici. Forte di un’esperienza nel
jazz che mi ha aiutato moltissimo. Poi, per via della mia passione per
la voce, unii all’arpa i miei vocalizzi. La cosa piacque molto a
Morricone. La sviluppai pensando di aggiungere anche un testo. E chiesi
consigli a Fabrizio De André: il quale mi disse “ricordati che in una
canzone devi subito lanciare un messaggio, nelle prime battute, ed
intorno a quello costruirai testo e canzone”.
Gli strumentisti amano dire che il loro strumento è vivo, respira e vive
con loro.
“Certo. C’è un rapporto di fisicità assoluta con lo strumento. Per
esempio lo strumento mi ha suggerito di apprendere tecniche di
respirazione, di concentrazione. Nell’intimità invece l’arpa è stata la
mia più grande amica, quella alla quale ho confidatole cose mie più
profonde.
E il nuovo Cd?
“Dopo gli esperimenti pop, rock, jazz ho provato l’esigenza di tornare
alla classicità. Sono ritornata alle origini, alla semplicità. Infatti
ho cominciato a scrivere questi brani, in modo che altri arpisti possano
suonarli. Insomma in questo album specchio il mio percorso musicale”.
Per questo ha inserito anche Varianti sulla scala enigmatica, una
composizione di suo padre? “E’ un brano che mio padre ha scritto nel
’95. Lo vivo come un suo augurio, una sua dedica, una sua attenzione per
la mia carriera che allora era all’inizio. Lo rivedo, col suo pennino e
con la sua precisione a scriverlo. E’ un pezzo straordinario,
affascinante che mi ha dato tante indicazioni sulla sua scrittura. E
credo che ogni volta che lo eseguirò scoprirò nuovi messaggi che mi ha
lasciato mio padre”.