I genitori passano gran parte del loro tempo “domestico” a cercare di arginare l’utilizzo degli smartphone, che sono diventati un’appendice del corpo dei figli, un dispositivo infernale che li vede costantemente connessi, in funzione multitasking, anche quando cioè, sono impegnati in altre attività, spesso anche’esse tecnologiche come un videogioco alla play station o l’ascolto della musica su un Ipod. È di parziale conforto sapere che almeno il tempo scolastico è un’oasi protetta in cui il ragazzo è costretto a “staccare la spina”, a ritrovare tempi e modalità più lenti, evitando la dimensione dell’iperconnessione o della frammentazione dell’attenzione, recuperando modalità di interazione sociale più dirette. Ed evitando che a ogni dubbio si possa automaticamente ricorrere a google senza attivare la memoria o il ragionamento. Sdoganare questo divieto, seppure regolamentato, creerebbe un flusso continuo a questa dittatura dei polpastrelli. Già i docenti faticano spesso a far rispettare le regole della vita scolastica, immaginiamo che regolamentare l’utilizzo a fini didattici dello smartphone sia una variabile che appesantirebbe ancora di più il mantenimento della disciplina. Trattasi infatti di strumenti pervasivi, che tendono a fagocitare il ragazzo (e non solo lui), a portarlo “altrove”. Diverso potrebbe essere l’utilizzo di tablet, finalizzato a un preciso obiettivo, e con un utilizzo concordato e diretto. Il tablet ricorda di più il libro, si fa strumento di consultazione, di rielaborazione, mentre lo smartphone è un oggetto personale, promiscuo, legato a un utilizzo ludico, estemporaneo, occasionale. Quindi, lasciamolo spento e ricorriamo ai tanti altri modi per interagire in una classe, recuperiamo il dialogo, la manualità, la discussione. In modo che il suono della campanella continui coincidere con il click che mette a dormire lo smartphone e accenda invece la recettività del cervello.