Moriva cento anni fa, il 1°
dicembre 1916, quello che
può essere considerato un
padre del deserto contemporaneo
che preferì gli ultimi
posti ai primi e la vita
nascosta a quella pubblica. Charles
de Foucauld fu prete, eremita e missionario
sui generis. Un monaco senza
monastero, un cercatore di Dio che a
chiunque passasse dal suo villaggio
nel deserto del Sahara, cristiani, musulmani,
ebrei e idolatri, si presentava
come «fratello universale» e offriva a
tutti ospitalità. Fratel MichaelDavide
Semeraro, benedettino, in Charles de
Foucauld. Esploratore e profeta di fraternità
universale (San Paolo, pp. 168, euro
16) traccia un ritratto del religioso
francese beatificato nel 2005 mettendone
in luce tutta la carica di novità.
Chi era Charles de Foucauld?
«Il rampollo di una nobile famiglia
militare francese, cattolica, che
a 6 anni perde entrambi i genitori. Il
padre muore di pazzia in manicomio.
Questo segna un punto fondamentale
della sua biografia. Diventa inquieto,
vive una giovinezza alla ricerca del
piacere, viene cacciato dall’esercito francese per mal disciplina, poi
decide di andare in Marocco per esplorare
una zona sconosciuta e quest’impresa
gli vale una medaglia d’oro dalla
Società di geografia di Parigi. Qui resta
impressionato dalla fede dei musulmani
e dal loro modo di pregare,
in particolare i mistici sufi. A 30 anni
torna a Parigi per ricevere il premio e
va nella chiesa di Sant’Agostino dove
si converte. Tornato alla fede vuole diventare
religioso, e sceglie la vita più
austera e dura: si fa monaco trappista
che lo porta a vivere in Francia e poi in
Siria. Prima di emettere i voti perpetui
viene mandato a vegliare un morto e
scopre che i vicini di casa sono più poveri
di lui, che è un monaco trappista.
Chiede e ottiene di lasciare la trappa e
va a vivere a Nazaret come domestico
delle Clarisse dove vive in una capanna,
povero e nascosto. La badessa s’accorge
della sua profondità interiore
e lo convince a diventare prete. Dopo
l’ordinazione nel 1901 sceglie una zona
del deserto del Sahara dove non ci
sono preti. In questi 15 anni vive vicino
alle guarnigioni francesi di stanza
in Algeria e si spinge nel deserto fino al
villaggio tuareg di Tamanrasset, dove
impara la loro lingua per annunciare il
Vangelo. I musulmani, ripete, non devono
essere convertiti ma occorre avere
con loro relazioni buone e fraterne».
La sua morte fu strana, bizzarra...
«La sua casa, sempre aperta a tutti,
viene saccheggiata da predoni e in
questo assalto resta ucciso. Il cadavere
fu ritrovato presso l’ostensorio. Fratel
Carlo non muore come martire ma
come testimone appassionato dell’amore
che si dà fino alla fine. Con lui
c’è un’evoluzione dell’idea stessa di
martirio: donare la vita fino al sangue
ma senza un carnefice. La sua morte
ha rappresentato un modo diverso di
vivere il martirio».
In cosa consisteva la sua spiritualità
da “figlio del deserto”?
«Quando si converte è conquistato
da una frase molto amata del suo padre
spirituale: “Gesù, quando si è fatto
uomo, ha preso l’ultimo posto che nessuno
gli potrà togliere”. Tutta la vita di
fratel Carlo è segnata dalla volontà di
mettersi all’ultimo posto e accanto a
quelli che vivono all’ultimo posto. È figlio del deserto perché figlio del vento,
dell’acconsentire alla realtà così com’è
di realizzarsi».
Quali sono le parole chiave che
aiutano a comprendere la sua opera?
«Tre: amare, servire e pregare. L’amore
è la cosa più importante perché
è l’immagine di Dio. Fratel Carlo sceglie
come simbolo sull’abito religioso
il cuore sormontato dalla croce. Il suo
motto era: “Non amerò mai abbastanza”.
In due sensi: nell’amore verso Dio,
pregando, e nell’amore verso il prossimo,
servendo».
Perché, come ha detto Benedetto
XVI, la sua vita è «un invito ad aspirare alla fraternità universale»?
«Di fatto per fratel Carlo la santità
coincide con la fraternità. Dopo la conversione
pensa che per diventare santi
bisogna isolarsi in un monastero. Poi
leggendo il Vangelo si accorge che la
santità non è separazione dal mondo
ma fraternità universale. Il rapporto
che intesse con il mondo islamico
rappresenta per noi una sfida perché
permette di trovare con questi fratelli
un dialogo senza però convertirli.
Ripeteva: “Voglio essere il piccolo fratello
universale”. Il fatto stesso che l’altro sia
accanto a me lo rende mio fratello».