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giovedì 30 marzo 2023
 
L'INTERVISTA
 

Maria Sole Ferrieri Caputi: "Così sono arrivata ad arbitrare in Serie A maschile"

30/09/2022  Promossa all'ultima tornata tra gli abilitati a dirigere nel massimo campionato maschile, debutta il 2 ottobre alle 15.00 in Sassuolo-Salernitana. Famiglia Cristiana l'ha intervistata

Riservata, come si conviene a una custode delle regole. Maria Sole Ferrieri Caputi, prima donna a meritare la promozione ad arbitro CAN, cioè designata a dirigere gare in Serie A maschile, si racconta con sorriso aperto e parole precise, senza troppo concedere ai personalismi, consapevole che il fischietto e la divisa devono coprirli sotto le insegne della funzione. Sa che l’esposizione inevitabile che le dà l’essere l’unica donna tra 49 colleghi maschi (le altre sono assistenti o arbitrano a livello internazionale in beach soccer, il calcio da spiaggia, o in calcio a 5) non deve togliere sobrietà, né giungere al punto che l’immagine di Maria Sole prevalga su quella dell’arbitro Ferrieri. Il bel viso acqua e sapone incorniciato dai lunghi capelli neri con la scriminatura al centro, non prigionieri dell’elastico cui il campo la costringe, le tolgono all’apparenza qualcuno dei suoi 31 anni. Lo sguardo, che anche fuori dalle righe bianche guarda dritto negli occhi, emana forza tranquilla, autorevolezza. Qualità che certo sono servite a tenere a bada l’ultima accidentata mezz’ora diSampdoria-Reggina in Coppa Italia il 5 agosto (due rigori, un gol annullato, un paio di tormentate Var, un giallo per proteste), senza perdere né la calma né il sorriso e guadagnandosi alla fine, per quel che vale, voti in pagella tra il 6,5 e l’8.

 

Com’è che una ragazza, in un Paese sregolato, decide di fare l’arbitro?

«Alla base c’era la passione per il calcio, da bambina avrei voluto giocare  ma erano altri tempi e mamma e papà non mi hanno assecondata. Quando a 16 anni ho saputo per caso del corso arbitri avevo l’età per decidere: mi sono iscritta e ho scoperto un mondo di cui mi sono innamorata, che mi ha insegnato l’impegno per raggiungere un obiettivo e la responsabilità nel decidere, cose tornate utili nello studio e nel lavoro (è laureata con lode in Sociologia e lavora come ricercatrice sul tema del lavoro, in un centro studi privato, ndr). E poi c’è la dimensione relazionale, bella per il confronto con colleghi di generazioni diverse».

I suoi l’hanno lasciata fare?

«Sì, i dubbi iniziali erano legati ai casi di violenza di cui si racconta, ma poi mi hanno sempre fatto sentire il loro sostegno, anche pratico».

È vero che a livello giovanile è più difficile?

«Quando sei giovane e non ancora formata è duro metabolizzare la violenza verbale gratuita che ti arriva dagli spalti, magari dal genitore di un giocatore tuo coetaneo. C’è tanta strada da fare in fatto di educazione».

A proposito di insulti, l’essere donna peggiora il campionario?

«In campo tra i professionisti no, c’è molta correttezza: l’arbitro si rispetta. Nelle categorie regionali o provinciali la reazione all’espulsione capita. Dalle tribune, invece, qualche insulto “sui generis” arriva a tutti i livelli».

C’è differenza nell’arbitrare partite maschili o femminili?

«Nella percezione del ruolo no, l’arbitro sta un po’ antipatico a tutti. Le partite femminili hanno in area episodi più imprevedibili, in quelle maschili la velocità rende difficile valutare in tempo reale, per fortuna a questo livello la Var aiuta».

Come scaccia la paura di sbagliare? 

«Non lasciando nulla al caso nella preparazione delle partite, studiando le squadre, la loro tattica, le caratteristiche dei giocatori, ma sapendo che l’errore, lo dice la probabilità, prima o poi ci sarà. La Var è una sicurezza psicologica: sai che dove non arrivi tu ti aiuta a ristabilire la verità in campo».

Quanto si allena un arbitro?

«Tanto. Se è donna, tantissimo».

Da donna deve dimostrare di più?

«I test sono gli stessi. Per arrivare fin qui direi che, sì, negli anni scorsi qualcosa in più ho dovuto dimostrare. Adesso però non ho la sensazione di arrivare in un ambiente ostile. Il calcio per soli uomini di qualche anno fa ha fatto grandi passi avanti nella cultura dell’inclusione. I colleghi mi hanno accolta con tante chiamate di benvenuto. Sono grata di avere questa possibilità. L’essere la prima mi dà una responsabilità in più, sta a me ora dimostrare di essere all’altezza di non sfigurare in questo gruppo».

Quali sono stati il momento più difficile e il più gratificante?

«Collego le difficoltà agli infortuni, perché anche gli arbitri si fanno male, e i momenti belli, tanti in questa stagione piena di emozioni, alle partite andate bene: la mia prima in Coppa Italia, le finali dei play-off».

Quando una partita “va bene”?

«Oggettivamente, quando ci sono solo episodi cristallini e decisioni che non generano contestazioni. Soggettivamente, quando esco con la sensazione di aver dato una buona immagine di me come arbitro».

Arbitro o arbitra?

«Decidete voi, preferisco arbitro, ma le mie priorità sono altre».

Che persona è fuori dal campo?

«Una donna semplice che ama sacrificarsi e impegnarsi per le cose in cui crede, che d’ora in poi farà l’arbitro di professione, ma terrà la sua attività di ricercatrice come passione, anche grazie al fatto che il datore di lavoro lo consente. Un tipo tranquillo, che nel tempo libero sta volentieri all’aperto, si tratti di camminare in montagna o di fare snorkeling, e che trova a casa, a Livorno, il suo rifugio, in famiglia, tra gli affetti, con gli amici di una vita».

Si sa che c’è un fidanzato, ma di più non si dice. Perché la vita privata di un arbitro è bene che resti tale.

 
 
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