Tatiana e Andra Bucci, nate a Fiume nel 1937 e nel 1939, non sono più le gocce d’acqua che erano da bambine, ma si raccontano come se fossero una. I due anni e mezzo vissuti pericolosamente, tra il 1944 e il 1946, attraverso la deportazione a Birkenau, quando avevano 6 e 4 anni, l’orfanotrofio di Praga, l’accoglienza in Inghilterra, il ritorno a casa, a Trieste, dov’erano emigrate con la famiglia da Fiume, le hanno unite per sempre.
La somiglianza fisica di allora, invece, ha salvato loro la vita nel lager. Il filo del racconto, che ora è anche in due libri (Noi, bambine ad Auschwitz Mondadori e La stella di Andra e Tati, De agostini, per bambini) passa dall’una all’altra inestricabile come un canto corale. «ll fatto che sembrassimo gemelle ci ha evitato la camera a gas appena arrivate al campo», destino che toccava alla maggior parte dei bambini (su 230.000 da Birkenau ne sono tornati 50). «L’essere insieme ci ha aiutate a resistere, ad adattarci presto all’anormalità di quel luogo».
In quanto gemelle presunte sono state preservate in vista degli esperimenti di Mengele. Non sanno perché non siano mai state scelte, ma sanno chi le ha salvate: «La custode della nostra baracca, dura con altri, ci aveva prese in simpatia, forse le ricordavamo qualcuno di casa. Un giorno ci prese da parte e disse “Verrà un dottore. Chiederà: ‘chi vuole andare dalla mamma?’ Non andate”. Altre volte, prima, ci aveva dato da mangiare e da vestire di nascosto. Un po’ fidandoci di lei, un po’ perché convinte che mamma, deportata con noi, fosse morta, abbiamo resistito all’istinto di andare incontro a quell’inganno crudele». Hanno provato ad avvisare anche il loro cuginetto, Sergio, ma per lui l’istinto è stato più forte. Chi andava non è tornato.
Il ricordo di Praga, dopo, è evanescente: «Un orfanotrofio pieno e anaffettivo, pare impossibile esserci state un anno, ricordiamo poco. Ma è vero che abbiamo parlato ceco tra noi fino a casa. E sapevamo che la guerra era finita, tanto che quando sono arrivati gli inglesi a prenderci per portarci a Lingfield da Anna Freud, la figlia di Freud, non abbiamo avuto paura di dire che eravamo ebree».
L’Inghilterra ha la forma del ritorno alla vita: «Calore, profumo di dolci, canti, supporto psicologico. Ci sarebbe servito anche dopo ma non è mai arrivato». Hanno cercato da sole la strada dell’equilibrio. Ad ascoltarle ora mentre parlano, inframmezzando sorrisi alla vibrazione di una commozione sobria, ma comunque salde, si capisce che l’hanno trovato.
A casa sono tornate a due anni e mezzo dal treno piombato, riconoscendo una foto dei genitori. La mostrarono loro in Inghilterra: « “Sapete chi sono?”. “Sì, mamma e papà”. “Sono vivi vi cercano”. Diversamente saremmo finite in un kibbutz in Israele. A casa mamma ha rispettato il nostro silenzio e noi il suo. Abbiamo davvero capito la gravità di quanto vissuto e l’enormità del suo dolore una volta diventate madri di figli della nostra età di allora. Il riserbo di mamma ci ha insegnato a guardare avanti, probabilmente abbiamo rimosso il peggio».
A testimoniare hanno iniziato da donne mature «Più perché ci hanno cercate che per scelta nostra, farlo un po’ aiuta e un po’ fa male. Davanti a figli e nipoti è più difficile, si vorrebbe proteggerli tacendo». La vita le ha separate. Tati vive a Bruxelles dal 1964. Andra negli Stati Uniti vicino a una figlia.
Ma i venti liberticidi che stanno soffiando in luoghi diversi d'Europa evocano loro un sentimento identico e simultaneo: «Paura». Lo stesso che ad ora incerta le coglie, a tradimento, quando passa un treno merci.
Questo incontro è avventuto nella stanza di un albergo fiorentino nel gennaio 2019 ed è uscito sul numero 4/19 di Famiglia Cristiana