Attraverso le note del mio album voglio regalare speranza in questo momento difficile e buio. Al di là degli inquietanti sconvolgimenti geopolitici e ambientali, credo che il buio rappresenti una dimensione invisibile che avvolge la nostra anima. L’idea dell’impossibilità di fare le cose, il sentirci perennemente inadeguati: questo buio è il frutto di un condizionamento della società conformista in cui ci troviamo immersi. Dobbiamo rompere la cappa e tornare alla scintilla autentica che è nascosta in fondo al cuore». È intimo e travolgente il racconto del compositore e pianista Giovanni Allevi, che incontriamo in redazione durante il tour di presentazione del suo album Hope.
«Hope come speranza, appunto, quella che possiamo conquistare attraverso un ritrovato contatto con la natura, con i suoi silenzi, con i suoi spazi e con i suoi tempi. Non penso alla speranza come fosse relegata in un futuro lontano o in una dimensione metafisica. Spero, oggi stesso, di riuscire a vedere oltre alle apparenze, riscoprire l’incanto e l’infinito che è dentro e fuori di noi. La musica è un viatico straordinario per raggiungere questo stato di grazia».
Un buio in cui si è immerso anche lei nel periodo della depressione. Da dove si riparte?
«Tornando all’autenticità delle cose, anche delle piccole cose. Solo così è davvero possibile ritrovare il contatto con le forze divine e misteriose che da sempre percorrono il cuore dell’umanità e che il mondo contemporaneo ci impedisce di vedere».
Per la prima volta, oltre alla presenza dell’Orchestra Sinfonica Italiana, c’è la voce. Perché?
«La prima composizione che ho scritto, in senso cronologico, è la cantata sacra Sotto lo stesso cielo. In una notte d’estate mi trovavo in piena campagna con il mio bimbo appena nato, io ero sdraiato a terra e guardavo il cielo mentre lo facevo addormentare. In preda a un forte senso di nostalgia perché il giorno dopo partivo per una tournée in Cina».
E cosa è successo?
«Un po’ per il calore del suo corpicino, un po’ per il cielo stellato e un po’ per le lucciole che ondeggiavano nell’aria, sono stato travolto da uno sconvolgimento di meraviglia, un’esperienza mistica potente. In quel momento ho deciso di raccontare tutto questo in un’opera per coro, orchestra e voci soliste. Che finalmente vede la luce. Ho avuto bisogno delle parole, oltre che delle note, per esprimere questa meraviglia che riconduco a Dio quale artece della volta celeste. Ho anche immaginato che i popoli, tanto diversi e distanti, fossero uniti sotto lo stesso cielo da un abbraccio di pace universale. La parte più emozionante del brano è la “ninna nanna” centrale in cui dico al bimbo “un futuro avrai colmo di speranza e felicità”».
Un album che ha tanti inediti, ma anche classici rivisitati della tradizione natalizia.
«Se faccio un salto indietro e ripenso all’immagine più bella che ho del Natale, mi rivedo a 8 anni a cantare come voce bianca nella Corale polifonica ascolana, la notte del 24 dicembre nel Duomo di Sant’Emidio con a fianco mia madre che era la soprano solista. In quella notte santa cantavamo sempre un corale di Bach, l’Ave verum di Mozart e l’Hallelujah di Händel: brani che non potevano mancare dentro Hope. Rappresentano una grandezza e una magnificenza che è alle nostre spalle, ma che non dobbiamo dimenticare se vogliamo costruire un mondo più bello. Preghiere in musica, autentici capolavori di musica sacra».
Da papà come vive il Natale?
«I miei figli mi insegnano che il sogno e l’immaginazione sono molto più reali e presenti di quanto pensiamo. I bambini lo sanno benissimo. La loro fantasia, che spesso noi interpretiamo come ingenuità, è, in realtà, una dimensione preziosa che abbiamo perso e che dobbiamo recuperare. Loro in questo senso mi ispirano: nel brano You were a child faccio dire ai due bimbi solisti – le voci bianche dei Pueri Cantores della Cappella musicale del Duomo di Milano – rivolgendosi agli adulti: “Guarda il mondo attraverso i miei occhi, ricordati di quando eri bambino”».
Come lo trascorre?
«In genere, in questo periodo sono in tournée, ma in qualsiasi parte del mondo sia, penso alla volta che ero in Cina, la notte del 24 torno e il 25 mi sveglio con la mia famiglia».
Dal primo dicembre è in tournée con una novità...
«Sul palco con me ci sono i musicisti d’orchestra, già diplomati, tra i 20 e i 30 anni, della masterclass che ho condotto. È stata un’esperienza indimenticabile, l’ho iniziata pieno di timori perché mi avevano avvertito che le nuove generazioni hanno il cuore immerso nel disincanto e nel rancore. E, invece, sono stati loro a regalarmi entusiasmo e fiducia nei confronti della musica. Adesso, con grande emozione mia e loro, mi accompagnano nell’Orchestra Sinfonica Italiana».
Stando con questi ragazzi cosa ha scoperto?
«La masterclass è stata un’esperienza filosofica: siamo stati al tempio di Era a Metaponto, vicino a Matera, luogo dove Pitagora ha elargito gli ultimi anni del suo insegnamento. Lì è stata teorizzata la scala musicale 2.500 anni fa, lì il filosofo parlava della possibilità che gli opposti, buio e luce, perfezione e imperfezione, trovassero un’armonia grazie alla musica. È stato commovente portare i ragazzi tra le colonne di quel tempio e parlare insieme di cosa potessero raccogliere oggi dell’eredità di Pitagora. Ascoltando le loro considerazioni ho scoperto una generazione di una profondità, di una dolcezza e di una lungimiranza inaspettate».
Nell’album anche il brano O generosa!, inno ufficiale della serie A di calcio. Come mai?
«È il brano per coro e orchestra più gioioso che abbia mai scritto. Il testo, in latino, invoca una forza nobile (generosa magnitudo) che ci faccia essere campioni prima di tutto nella vita. È l’inno del calcio italiano, ma riguarda ognuno di noi. Io non seguo il calcio, sono in grado di fare qualche palleggio, ma ho accettato di comporlo perché durante l’adolescenza avrei tanto voluto giocare con i miei coetanei a pallone sotto casa e, invece, mia madre mi richiamava sempre perché dovevo studiare pianoforte. Con O generosa! ho voluto colmare questa mancanza».
Ad aprile ha compiuto 50 anni. Ha festeggiato?
«No. La mia indole ansiosa mi porta a evitare bilanci, ricorrenze e aspettative. Lascio che la mia anima tormentata, incline alla malinconia e desiderosa di infinito, vaghi in questo mondo alla ricerca di una luce. E sono contento così»
(Pubblicazione originale: Famiglia Cristiana n.50 del 15 dicembre 2019. Foto in testata: ANSA)