Due anni. Da due anni Ucraina non è più un nome legato solo a qualche lavoratore straniero, non è più un’indistinta regione dell’angolo più remoto del continente europeo. È un paese in lotta per la sua libertà, è la “martoriata Ucraina”, aggredita, spinta a una guerra terribile di difesa. Tocca ricordarlo sempre, di difesa, a chi sventola facili pacifismi che nascondono a volte indifferenza o opportunismo. Costa, sostenere l’Ucraina. Costa, sostenere la democrazia e l’Europa tutta dai fantasmi che vi si aggirano, vecchi fantasmi in vestiti nuovi.
Dopo due anni siamo stanchi di parlare di Ucraina. Ci pare di aver appoggiato i perdenti e aver perso anche noi, e la tentazione di accodarsi al vincitore è grande. Ci siamo illusi che le sanzioni a goccia fermassero il dittatore. Troppo attendisti, abbiamo bloccato i fondi sovrani russi senza farli nostri, e impiegarli ad esempio nella ricostruzione di un Paese devastato. Rispettosi della legge, contro un Paese che la disprezza, irrilevanti nell’inventare le strade diplomatiche che mettano a un tavolo amici e nemici. Divisi per interessi di parte, per lasciti polverosi dell’ideologia.
A due anni dall’invasione dei territori ucraini siamo indignati e sconvolti dall’assassinio di Aleksej Naval’nyj. Siamo obbligati a ricordare la sua storia, ora che è morto. A stupirci per il suo coraggio, il suo eroismo, parola che ci imbarazza: dopo aver ripulito dalla retorica la figura dell’eroe, abbiamo dimenticato gli eroi, con scetticismo. In fondo, a cosa è servito il suo sacrificio? Le manifestazioni di protesta in Russia sono state sporadiche e subito disperse con la violenza. Quelle nei Paesi liberi sono state spontanee, reattive, ma sono già un ricordo.
Naval’nyj ha resistito al carcere, all’isolamento, al gelo del Gulag, alle torture, al veleno, alle umiliazioni. Aveva un ideale, amava la sua terra, la sua cultura: le sue lettere dall’inferno erano appassionate per l’ultimo romanzo letto dei grandi scrittori russi. Si può essere liberi anche se schiacciati dall’odio e dalla tracotanza di Putin. Si può credere nel cambiamento e sperare, nonostante tutto. I nostri nonni hanno sperato nella fine della dittatura e della guerra.
Abbiamo bisogno di testimoni così, che ci aiutino ad alzare gli occhi dai nostri piccoli interessi, dai nostri mondi ottusi. Scrivere, dire, ripetere il nome di Aleksej Naval’nyj oggi è gridare il nostro anelito alla libertà e alla pace perché non c’è pace senza giustizia e senza verità. Che questa Europa fiacca e troppe volte meschina sia scossa da una ventata di orgoglio e audacia di fronte alla forza bruta, alla menzogna sprezzante che sopra tutto usa il santo nome di Dio per farsi benedire ancora una volta le strade del male. Non conosco la fede di Aleksej Naval’nyj. Ma nella schiera dei testimoni laici che la storia ci ha donato riserviamogli un posto d’onore, non solo nei ripostigli della memoria.