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domenica 16 febbraio 2025
 
 

Disabilità in Italia, sinonimo di invisibilità

23/07/2013  Nel nostro Paese l'approccio assistenzialistico prevale sul tema dell'inclusione sociale e delle pari opportunità. E si scaricano gli oneri quasi interamente sulle famiglie

È  una condizione che, in Italia, riguarda 3 milioni di persone, il 5 per cento della popolazione. Secondo i più recenti dati Istat, 2 milioni 300 mila famiglie ne sono interessate. Eppure di disabilità nel nostro Paese si parla molto poco, come dimostra la scarsa attenzione prestata dai media alla IV Conferenza nazionale sulle Politiche della disabilità, che si è tenuta a Bologna lo scorso 12 luglio.

Tuttalpiù, per uscire almeno temporanemente dall'alone di silenzio che da noi circonda la disabilità, è necessaria la recente sentenza della Corte di Giustizia europea, che ha ritenuto inadeguato in Italia l'inserimento professionale dei disabili nel mondo del lavoro, oppure la lettera aperta di denuncia di una delle migliaia di "madri coraggio" che ogni giorno si prendono cura in prima persona di un familiare disabile.

Marina Cometto è la madre di Claudia, una donna di 40 anni affetta dalla Sindrome di Rett, una gravissima patologia invalidante, che la rende incapace di movimenti autonomi e di esprimersi a parole. La signora Cometto ha scritto una lettera aperta al ministro della Salute Beatrice Lorenzin, in cui racconta una notte come tante, trascorsa al fianco della figlia cercando di interpretarne con amore i bisogni e le impellenze.

Scrive, la signora Cometto, anche alla luce del recente caso di abusi e maltrattamenti in una Rsa per persone disabili in provincia di Napoli. Si dice sicura che, se sua figlia fosse stata ricoverata in una struttura del genere, nessuno si sarebbe preoccupato di capire che la notte scorsa aveva sete: le avrebbero somministrato del valium perché smettesse di disturbare degenti e personale con i suoi lamenti. E quando anche il valium le avesse nuociuto fino a provocarne la morte, a nessuno sarebbe importato.

"L'assistenza domiciliare resta sempre l'opzione più desiderabile", scrive la signora Marina, "sia perché la maggior parte delle persone preferirebbe stare a casa propria, sia perché anche per la spesa pubblica sarebbe molto meno oneroso". Eppure sono necessarie garanzie per tutte quelle persone che non hanno alcuna possibilità di assistere a domicilio un proprio caro.

Perciò si rivolge direttamente al ministro Lorenzin, lanciandole un vero e proprio appello: "Deve prendere posizione e responsabilità anche verso i Comuni e le Regioni che 'foraggiano' ampiamente molte di queste strutture disumane. Una forma di controllo potrebbe essere l'inserimento obbligatorio dei familiari nella gestione della struttura stessa, come forma di garanzia". La signora Cometto conclude la sua lettera con un invito accorato: "Parliamone. Parlatene, coinvolgeteci, ascoltateci. Non siate complici di chi abusa di queste persone. Sono i figli fragili della nostra società ed è dovere di tutti occuparsene".

Ma il vero problema è che in Italia il tema della disabilità è declinato prevalentemente in un'ottica assistenzialistica, che trascura altri aspetti fondamentali come l'uguglianza dei diritti e le pari opportunità. Anche perché il modello italiano, in assenza di efficaci politiche pubbliche, è forzatamente incentrato sulle famiglie, sulle quali pesano oneri e responsabilità dell'assistenza a malati e disabili. Basti pensare che, in media, una famiglia con un disabile a carico spende 13 mila euro all'anno.

In questo senso, il caso della signora Cometto è emblematico. Ma, come detto, la condizione della disabilità ha implicazioni anche sul versante della tutela e dell'inclusione sociale. Infatti, ben prima che la sentenza della Corte di Giustizia europea definisse insufficiente e inadeguato l'inserimento professionale delle persone disabili nel mondo del lavoro, una ricerca del 2012 di Censis e Fondazione Cesare Serono dimostrava chiaramente le falle del modello italiano in materia di protezione sociale delle persone disabili.

La ricerca era significativamente intitolata "I bisogni ignorati delle persone con disabilità" e metteva nero su bianco tanto l'esiguità delle risorse erogate quanto l'improduttività della spesa pubblica. Non solo in Italia sono destinati 438 euro pro capite alla protezione sociale delle persone disabili (ben al di sotto dei 531 euro della media europea), ma è lampante la sproporzione tra misure erogate sotto forma di prestazioni economiche e quelle erogate come beni e servizi, ai quali sono destinati solo 23 euro pro capite a fronte dei 125 euro della spesa media europea.

La questione dell'inserimento lavorativo delle persone disabili, quindi, è rappresentativa dell'intero modello italiano in materia di disabilità. E quando anche dal punto di vista legislativo il nostro Paese è al passo delle altre Nazioni europee, come spesso accade l'applicazione concreta della Legge è un altro paio di maniche. Dalla ricerca di Censis e Fondazione Cesare Serono, infatti, emerge che il tasso di occupazione tra le persone disabili si ferma al 18,4% dei 15-44enni e al 17% dei 45-64 enni. In Francia, per esempio, siamo al 36% di tasso di occupazione tra i 45-64 enni.

Inoltre per una persona disabile, ancor più difficile che trovare impiego è conservare il proprio posto di lavoro, specialmente se si è affetti da una malattia cronica che causa progressiva disabilità. Ciò comporta che, per esempio, meno di una persona con Sindrome di Down su tre lavora dopo i 24 anni, mentre lavora solo il 10% delle persone affette da autismo con più di 20 anni.

Pertanto non solo le persone con disabilità sono il più delle volte impossibilitate a contribuire attivamente alla propria comunità locale e alla società più in generale, ma lo stesso sistema Paese paga un costo economico e sociale elevatissimo. E questo perché in Italia disabilità è sinonimo di invisibilità.

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