Fin dall’inizio di questo pontificato abbiamo pensato l’ospedale da campo come metafora della chiesa nel mondo contemporaneo. Oggi la metafora si vendica e diviene reale nella nostra società, a causa del virus. Grazie all’impegno generoso e gratuito di molti, si stanno attivando “ospedali da campo”, nelle zone più colpite, che sono anche le più produttive del Paese. Ci fa pensare questo profondo nesso fra l’orizzonte metaforico-simbolico e quello della realtà.
Non solo quando sarà conclusa la fase dell’emergenza, ma fin da ora (il kairòs è qui ed ora, hic et nunc) dobbiamo interrogarci, riflettere, progettare il futuro, a partire dal fatto che l’ospedale da campo ha bisogno di energie, che nell’ordine possiamo individuare come: persone e strumenti per la formazione e la ricerca. Tutti ci auguriamo che la politica sappia imparare la lezione del momento, onde non lesinare nel presente e nel futuro risorse in questi ambiti essenziali. È una sfida che lasciare disattesa sarebbe letale. Il lavoro e la dedizione di medici, infermieri, volontari ha bisogno delle provette, dei microscopi e degli alambicchi dei laboratori.
Ma c’è un virus più profondo e mortale di quello che sta dilagando nella nostra esperienza corporea: è il virus dell’incredulità e dell’angoscia. Stiamo sperimentando momenti di grande emozione religiosa e l’audience riservata a trasmissioni televisive di genere spirituale o spiritualistico, nonché l’enorme partecipazione all’evento della preghiera solitaria del papa, lo dimostrano. Tutto questo potenziale di devozione e di coinvolgimento emotivo, ha bisogno di riflessione, ossia di fatica teologica, perché alla fine non risulti effimero, se non controproducente. Se il virus dell’incredulità si è ampiamente diffuso nell’Occidente, che il Cristianesimo stesso ha generato, è perché è mancato il pensiero: il fatto che “non ancora pensiamo” (M. Heidegger). Certamente non sono mancate le iniziative ed esperienze accademiche, ma il pensiero non si è diffuso, non ha trovato spazio nella cultura dominante. Destinare risorse umane ed economiche alla hegeliana “fatica del concetto” diventa così imprescindibile, non solo al livello dei laboratori scientifici, ma anche in quei laboratori del pensiero che sono la filosofia e la teologia.
Il lavoro di parroci, catechisti, operatori pastorali ha bisogno del supporto di teologi che non si rinchiudano nelle mura della loro Castalia culturale accademica, ma sappiano cogliere i “semi del Verbo” nella cultura contemporanea. Si avrà il coraggio di scommettere su questa scelta determinante da parte dell’autorità politica, economica, mediatica ed ecclesiastica competente?
Il virus dell’angoscia è ancora più profondo e radicalmente umano. L’angoscia non è solo un sentire, né pura emozione: è invece una porta o, se si vuole, una “soglia” (F. Rosenzweig), che si situa fra l’esistenza banale ed inautentica e quella autentica (M. Heidegger). Questo è il destino, inscritto in questa terribile vicenda. Attraverso i momenti di angoscia che sperimentiamo a livello personale e comunitario, fa capolino la necessità della decisione per una vita autentica, che, in quanto tale, possa essere degna di essere vissuta contro la banalità del quotidiano e del mercato, che in tempi cosiddetti “normali, impera e spesso prevale. La ricerca dell’autentico sopravviverà all’emergenza? Ovviamente dipende da tutti e da ciascuno. Ma dipenderà anche dal discernimento che sapremo mettere in atto, ma fin da ora, affidandoci alla fatica del pensiero e della ricerca.