Sgombriamo subito il campo da un equivoco: nessuno dei tifosi, a parte qualche masochista o neofita che non sa esattamente che cosa lo aspetta, avrebbe voluto questo derby di Champions tra Inter e Milan. I milanisti speravano, in cuor loro, di essere eliminati ai quarti dal Napoli neo campione d’Italia. Idem noi interisti con il Benfica. Troppo stress, troppa tensione, troppa adrenalina. Stiamo male. Tutti. Io ne ho già vissuto uno (finito malissimo) e quindi so di cosa parlo.
Non è il campionato o la Coppa Italia. Qui c’è in ballo la finale di Champions League a Istanbul, città che ai rossoneri peraltro evoca incubi mai superati con l’harakiri che il 24 maggio 2005 gli costò la Coppa contro il Liverpool.
Non è che siamo fifoni, è che con l’età non ce la facciamo più con il cuore. Diventiamo nevrotici, andiamo in fibrillazione per un nonnulla, tremiamo alla sola idea che si possa materializzare il vecchio incubo dell'eliminazione senza perdere di vent’anni fa con gli sfottò dei cugini ai quali l'anno scorso abbiamo regalato lo scudetto. A Milano, la rivalità cittadina è britannica, sì, ma fino a un certo punto.
A soffrire e perdere siamo abituati, d'accordo, perché essere interisti è un corso, lungo una vita, di gestione dell’ansia, un master accelerato di fenomenologia della catastrofe, una Weltanschauung basata sulla preparazione a schivare i colpi dell'imponderabile e del capriccio che ti colpiscono quando meno te l’aspetti e che neanche la fervida fantasia di un romanziere riuscirebbe a immaginare.
Ecco, anche se siamo stoicamente votati a soffrire, non ce la facciamo a reggere un altro derby così. Est modus in omnibus rebus.
L’ultima volta che l’Inter è arrivata in semifinale di Champions è stato tredici anni fa, l’anno del Triplete, contro il Barcellona stellare di Messi e il condottiero Mourinho in panchina. E chi se le scorda, quelle due partite. Andata in un San Siro (guai a chi lo tocca!) strapieno. Ottantamila a sgolarci e spingere i nostri eroi. Pronti, via e segna Pedro. 1 a 0 blaugrana e il timore dell’imbarcata. Poi in sequenza rispondono Sneijder, Maicon e il “principe” Diego Milito. Lo stadio in delirio. Il portiere brasiliano Julio Cesar fa il resto, chiudendo la “cler”. 3 a 1, ci vediamo al Camp Nou per il ritorno. I tifosi del Barça vogliono la remuntada e si mettono a spingere Messi e compagni con un tifo indiavolato (ecco, l’ho detto, è un lapsus freudiano). Dopo un quarto d’ora viene espulso Thiago Motta e l’Inter resta in dieci.
Il copione della partita è da film horror, finale escluso: loro attaccavano come ossessi, neanche l’assedio a Fort Apache. Noi rintanati in difesa, in inferiorità numerica, a difenderci con i denti. E le nostre coronarie in tilt davanti alla TV tra gesti apotropaici, rituali scaramantici, imprecazioni, gente che si voltava per non vedere. Un mio amico che si era chiuso nell'altra stanza con i tappi alle orecchie per non sentire. Ricordo ancora il commento del telecronista della Rai Gianni Cerqueti: «Signori telespettatori, non è l’allenamento tra la primavera e prima squadra, è il ritorno della semifinale di Champions League tra Barcellona e Inter». Al 92’, quando già pregustavamo il pass per la finale di Madrid, segna Bojan. Fortuna che il gol viene annullato. Finisce 1 a 0 per loro ma basta e avanza per andare a Madrid. Mai sconfitta fu più dolce. Mou che fa il giro del terreno di gioco e gli addetti del Camp Nou che sparano gli idranti per non farci festeggiare perché gli rode assai essere stati sbattuti fuori con un catenaccio che neanche la buonanima di Herrera.
Certo, se fossimo usciti con il Barça, pazienza. Loro erano più forti, noi siamo stati sfortunati, l’arbitro ci ha fatto giocare in dieci per novanta minuti... Trovi una scusa, te ne fai una ragione… Ma nel derby è diverso, tutto è maledettamente più complicato.
E veniamo al maggio 2003, vent’anni fa esatti, l'anno della mia Maturità, in una primavera, meteorologicamente parlando, più calda e meno pazzerella di quest’anno.
Sulla nostra panchina c’era un coriaceo allenatore argentino, Hector Cuper, che aveva l'usanza di battere una mano sul cuore ai suoi giocatori prima di ogni partita. In campo, Materazzi, Javier Zanetti, Crespo e Vieri, che non giocò per infortunio.
Il Milan, allenato da Carletto Ancelotti, aveva campioni come Maldini, Nesta, Pirlo, Seedorf e Shevchenko. L’andata, il 7 maggio in casa dei rossoneri, finisce 0-0. Troppa la paura di perdere da una parte e dall’altra. «Un po' di paura va bene, se cammini in una via senza luce non hai paura, stai soltanto più attento a dove metti i piedi», filosofeggiava Cuper alla vigilia con quella sua faccia da suonatore di fado.
Una settimana dopo, il 13, il ritorno. O dentro o fuori. Per vedere la partita mi sobbarcai due notti in pullman, da Lecce a Milano, con i tifosi degli Inter Club del Salento, fratelli di sventura.
La finale di Coppa manca da 38 anni. In pullman ricordo i pronostici più disparati, le combinazioni più assurde, i marcatori più improbabili, gli scenari più bizzarri, i discorsi più astrusi. Al confronto, i commenti sul fantomatico risultato di Italia – Inghilterra durante la proiezione della Corazzata Potemkin di Fantozzi non era niente. C’era chi vagheggiava parità assoluta fino a dopo i rigori: «Rischiamo di andare al lancio della monetina», evocando scenari da primi del Novecento. Chi evocava la doppietta di Recoba (non toccherà palla e sarà sostituito dal più pimpante Martins), chi vaticinava una punizione di Di Biagio dal limite (partita scialba, sostituito da Dalmat), chi sognava una discesa di capitan Zanetti, una delle sue...
Arriviamo stanchi e sudati a Milano che ci accoglie in un’atmosfera quasi sospesa. San Siro è ovviamente sold out, 85 mila spettatori, quasi tutti nerazzurri. Vuoi che non ce la facciamo con uno stadio così?
Io ero nel primo anello verde, con tanto di sciarpa e bandierina per fare la coreografia. Esistenzialista, quella dell’Inter: “Creò l'inferno, ma non lo sopportò, nacque il biscione e la Curva Nord”.
Il primo tempo sembra la copia della partita dell’andata. Scialba, con le squadre impaurite che non affondano il colpo, prigioniere di un tatticismo esasperato che in tribuna fa infuriare Berlusconi.
Al 45’, quando ormai pensavamo di andare a riposo sullo 0 a 0, Clarence Seedorf salta con un movimento verso il centro Conceiçao e Cristiano Zanetti, portandosi ai 30 metri. Qualcuno pensa ad un missile dalla distanza, invece l'olandese ha visto con la coda dell'occhio il taglio di Shevchenko nell'area interista e serve l'ucraino con precisione millimetrica che insacca in rete. Su San Siro, spicchio rossonero escluso, piomba il silenzio.
Cuper cambia. Ormai non ha più senso indugiare con la tattica, per andare in finale servono due gol. Di gioco neanche a parlarne. Ci buttiamo avanti con la forza della disperazione, sui nervi. Fino all’80’ il muro rossonero respinge tutto.
All'84' si riaccendono all'improvviso le speranze. L'Inter butta palla sulla trequarti nella zona di Costacurta, che colpisce male con un campanile all'indietro che manda in tilt la retroguardia rossonera. Martins, con il corpo, impedisce a Maldini di saltare: il pallone rimbalza sulla schiena del nigeriano, che, con un bel movimento, inganna l'esperto capitano rossonero e segna esultando con le sue leggendarie capriole che fanno esplodere San Siro.
Servirebbe un altro gol. Restano solo otto minuti. All’ultimo assalto, Abbiati fa una parata di ginocchio su una conclusione di Kallon. Finisce a 1 a 1 e passa il Milan per la regola, che adesso è stata tolta, del gol in trasferta che vale doppio.
Sbattuti fuori senza perdere. In perfetto stile Inter. Perché noi interisti siamo maestri di sadismo autoinflitto. Ci rimettiamo in viaggio per Lecce e attorno a San Siro si sentono solo i milanisti. Mi aspetta un’altra nottata in pullman. Adesso non vola più una mosca. Qualcuno se la prende con Cuper, qualcun altro con la sfortuna (classico), qualcun altro con l’arbitro (classicissimo) Veissèire «che non ci ha fatto battere l’angolo al 91’ che stava scendendo Toldo».
Un ragazzino dietro di me si lancia in riflessioni esistenziali: «Papà, ma si può cambiare squadra?».
Ci fermiamo all’autogrill. Prendo un caffè e un Bacio Perugina. Lo scarto e trovo questa frase di La Rochefoucauld: «Le passioni sono i soli avvocati che convincono sempre».
Vent’anni dopo, infatti, siamo ancora qui. Con il solito patema d’animo e una tifosa in più, mia nipote Alice, anni tre, uno scudetto già vinto e qualche coppetta. Ragazzi, vorrete mica negarle la soddisfazione della sua prima finale di Champions?