Per chi viene dall’era della carta il dizionario di italiano è stato una pietra miliare, in senso fisico e metaforico, un parallelepipedo di parole, segno tangibile dell’ascensore sociale in salita nelle famiglie: se non altro perché molte, nel secondo dopoguerra, hanno acquistato il primo dizionario in concomitanza con il sogno dell’esame d’ammissione alla prima media per il primo dell’albero genealogico che ambiva agli studi superiori. Lo si comprava (fior di soldini), lo si viveva intensamente fino a consumarlo (a quel tempo non erano pochi i ragazzi che usavano un dialetto come lingua madre e imparavano l’italiano a scuola) e poi lo si custodiva gelosamente, ingiallito e incerottato, fino alla generazione successiva: quando quel “nuovo” o “nuovissimo” sulla copertina denunciava ormai il proprio status di contraddizione vivente e il figlio in crescita, d’età e di studi, finiva per reclamarne uno nuovo, o per l’imbarazzo d’andare a scuola col vecchio arnese tenuto insieme con il nastro adesivo da imballaggio o perché s’accorgeva che l’antico, privo di troppe parole contemporanee, non soccorreva più a sufficienza.
Ma i tempi cambiano e nella prefazione del Nuovo Devoto-Oli, a cinquant’anni dal primo, si legge che anche la pietra miliare del nostro parlare e scrivere quotidiano patisce la crisi: «Un dizionario oggi deve giustificare la propria esistenza rispetto alle possibilità di ricavare definizioni con un semplice clic sulla tastiera del computer . E l’unica giustificazione possibile consiste nella sua fisionomia individuale».
Già perché, a dispetto delle apparenze, i dizionari non sono tutti uguali, benché tutti soccorrano a proprio modo al parlare e allo scrivere comune. La fisionomia della prima edizione del Nuovo Devoto – Oli, il vocabolario dell’italiano contemporaneo (2017) non si limita a vestire di parole nuove, aggiunte, il corpo di un cinquantenne, ma si rinnova nella sostanza, a costo di lasciare fuori (peccato!) alcuni dei suoi esempi tratti dalla letteratura (che del Devoto sono stati a lungo, gradita, caratteristica peculiare) per fare spazio a nuove voci e soprattutto a tre rubriche pensate per andare incontro alle esigenze della contemporaneità. La prima, Questioni di stile, risolve i dubbi, giustappunto più stilistici che linguistici, del lettore: "ella" o "lei"? "E" o "ed"? La seconda, Parole minate, corregge gli errori ricorrenti di coniugazione, di accentuazione: una sorta di radar per non saltare sulle mine linguistiche più comuni, non solo tra gli studenti. Ma è la terza, Per dirlo in italiano, la vera innovazione: certo non a caso riecheggia nel titolo l’appello lanciato da Anna Maria Testa pochi mesi fa #dilloinitaliano e “traduce” con un’alternativa italiana plausibile e altrettanto efficace le troppe parole straniere che abbiamo adottato nella lingua corrente più per pigrizia e sciatteria che per reale necessità: perché dire "evergreen" se puoi dire "sempreverde"? Perché scrivere "lunch" se puoi scrivere "pranzo"?
In questo il Nuovo Devoto-Oli si mostra fedele a sé stesso: ringiovanisce senza fare il giovanilista. Registra sì 1.500 parole nuove ma non passivamente, le accoglie invitando – tra le righe - il suo fruitore, che vuole consapevole e maturo, a non subirle, ma a dominarle, se del caso a ritradurle. Non teme la tecnologia, l’adotta allegando alla versione di carta una versione digitale arricchita, testimoni entrambe di una lingua viva che non si limitano a descrivere, ma si sforzano di orientare.
Difficile dire se il nuovo Devoto avrà la forza o meno di contrastare la fretta di interrogare il primo surrogato su Google – ora che si sdoganano gli smartphone anche in classe –, ma se anche solo un ragazzo ogni tanto, trovandoselo per le mani, cominciasse a sfogliarlo perdendosi dietro alla curiosità per le parole ne sarà valsa la pena.