Più veloci e contagiose del coronavirus (il 2019-nCoV) le fake news su di esso imperversano in rete creando allarmismi e panico, ben al di là della giusta preoccupazione che un fenomeno del genere dovrebbe causare. Basta digitare su Google “coronavirus”, per trovarvi qualcosa come un miliardo e 290 milioni di risultati. Che, come osservava Piero Bianucci, giornalista e divulgatore scientifico, nell’editoriale di Famiglia Cristiana della scorsa settimana, spesso sono solo “paccottiglia” farcita di “falsità”.
Tanta e tale, in effetti, è la disinformazione sul tema, che l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha coniato un nuovo termine per descrivere quanto accade: “infodemia”. E ha preparato un vademecum in cui smentisce alcune credenze e notizie che in questi giorni hanno fatto il giro dei social e, purtroppo in più d’un caso, riprese anche dai media. Qualche esempio? La storia che vuole che cani e gatti possano essere infettati dal virus. Allo stato attuale non ci sono, in realtà, prove che gli animali da compagnia possano essere colpiti dal coronavirus. Da sfatare anche la voce che pacchi e lettere recapitati dalla Cina possano creare contagio. Gli esperti chiariscono che i coronavirus non sopravvivono a lungo su oggetti come quelli citati. Priva di fondamento anche l’affermazione che sia pericoloso mangiare cinese: il virus non si trasmette per via alimentare, e in Europa è vietata l’importazione di animali vivi e di carne cruda dalla Cina.
Altre bufale hanno come oggetto immaginifiche forme di prevenzione del contagio: particolarmente fantasiose sono quelle che affermano che si possa uccidere il virus sciacquandosi la bocca con acqua salata o con l’acido acetico. Altre ancora consigliano l’uso dell’alcool o di ingerire dell’aglio. Si tratta di notizie prive di fondamento scientifico che hanno costretto l’Oms a prendere posizione e intervenire in internet smentendo l’efficacia di tali metodi.
Ma di fake news, ce n’è davvero per tutti i gusti. Ad iniziare, ovviamente, dalle teorie più o meno “complottiste” che puntualmente sbucano fuori in questi contesti: una di queste è quella che vorrebbe il virus uscito da un laboratorio di Wuhan, dov’era in osservazione per scopi militari. Un’altra, simile, che riconduce l’epidemia a un furto del virus da un laboratorio canadese da parte di un ricercatore cinese.
In rete ha avuto fortuna anche un’altra bufala “catastrofista”: la notizia, stavolta, riporta i risultati di uno studio, effettivamente realizzato dall’americano “John Hopkins Center of Health Security”, che ha simulato una pandemia da virus. Risultato? Nell’arco di sei mesi, sarebbero morti 65 milioni di persone. Peccato che il coronavirus non c’entrasse: lo studio, attraverso una simulazione, ha immaginato che un virus partisse dagli allevamenti di suini del Brasile.
Un'altra bufala stavolta perfettamente “complottista” è quella che afferma che il coronavirus sarebbe stato creato in un laboratorio inglese: si tratterebbe ddi un brevetto militare che si occupa di armi biologiche e trasmesso alla popolazione da un tecnico contaminato.
L’ennesima teoria “cospirativa” spiega, invece, che il virus sarebbe stato sviluppato già nel 2015 sempre da un laboratorio inglese: si tratterebbe di un brevetto depositato dal Pirbright Institute sullo sviluppo di una versione indebolita del coronavirus. L’istituto, tuttavia, ha chiarito che la sua ricerca sul coronavirus riguarda virus che colpiscono pollame e suini, non la variante che colpisce l'uomo.
Insomma se c’è un modo per diffondere il panico la fake news ne è il miglior veicolo. Informarsi, cercando sempre fonti accreditate, per esempio il Portale dell’Epidemiologia dell’Istituto Superiore di Sanità (www.epicentro.iss.it) è il miglior vaccino. In attesa di quello medico. Per evitare che il germe dell’ignoranza trasmetta intolleranza e psicosi.