L'educatrice Freshta Karim, 27 anni, al centro con il velo giallo, in una scuola di Kabul
Quest’estate, durante le vacanze estive, migliaia di ragazzi in tutta Italia leggeranno di un viaggio ai limiti dell’immaginabile, dall’Afganistan al nostro Paese. E di un loro coetaneo protagonista di un’esperienza estrema, pericolosa, spesso brutale, raccontata però senza compiacimento o sensazionalismi, con un tratto leggero, a volte autoironico. A meno di dieci anni dalla sua uscita, Nel mare ci sono i coccodrilli. Storia vera di Enaiatollah Akbari di Fabio Geda (basato sulle interviste dell’autore al protagonista) è diventato, a suo modo, un classico: ha da poco superato il ragguardevole traguardo delle 600 mila copie vendute. Esploso immediatamente come caso editoriale, tradotto in 33 Paesi (Finlandia, Israele, Giappone e Corea del Sud compresi), da tempo il libro è anche un punto di riferimento per le scuole.
«Quando uscì, nel 2010, delle storie di ragazzi migranti in viaggio da soli si parlava ancora poco. Ma già allora percepivo il fastidio per le semplificazioni, per le vite complesse strizzate e buttate in un titolo di giornale, come se il destino di chi si mette in viaggio fosse uguale per tutti», spiega l’autore. Oggi più che mai, in una società sempre più fragile e ostaggio di pregiudizi, vale la pena far tesoro di quel viaggio attraverso sei Paesi (Afghanistan, Pakistan, Iran, Turchia, Grecia, Italia). E dell’esperienza di un ragazzo che, nonostante le prove durissime cui la vita l’ha così precocemente sottoposto, non ha perso la positività e il desiderio di plasmare con le sue mani il proprio futuro.
Per i lettori del libro la storia di Enaiatollah si interrompe quando il protagonista ha 14 anni e a Torino incontra finalmente un punto di riferimento sicuro, dopo le notti all’addiaccio e gli innumerevoli pericoli affrontati. Ma ci sono tanti altri capitoli, non scritti. Oggi Enaiatollah ha 30 anni, parla con la saggezza di un adulto, senza però aver del tutto abbandonato la leggerezza del ragazzo che è stato. Due anni fa si è laureato in Scienze internazionali dello sviluppo e della cooperazione. Lavora per l’Università di Torino. Tra i suoi sogni, «far parte del team di Emergency oppure costituire una Ong per operare nel mio Paese sul fronte dell’istruzione. So che quella è una chiave di volta. Infatti solo l’istruzione ci consente di conoscerci e di costruire la nostra personalità». Della sua terra, martoriata e bellissima, conserva la memoria «dei paesaggi, della natura, dei giochi nel mio villaggio». E naturalmente della sua famiglia, con la quale, pur tra mille difficoltà, è riuscito a riallacciare i contatti.
Quando gli chiediamo del viaggio e delle sofferenze patite, risponde con sorprendente equilibrio: «Quelle esperienze sono con me ogni giorno». Nel suo stile, sorvola sui momenti più duri: bisogna immaginare, leggendo “tra le righe”, le notti sotto zero sui passi di montagna, con solo un uovo e un pomodoro per sfamarsi, oppure i lavori estenuanti sotto il sole, nei cantieri, per sopravvivere, o ancora i tre giorni di viaggio, in Turchia, nascosto nel doppio fondo di un camion. «Credo che il mio vissuto mi renda più empatico nei confronti di determinate situazioni. Penso, per esempio, ai campi di prigionia in Libia. Molti italiani pensano siano semplicemente luoghi da cui non si può uscire. Io invece credo di poter avvertire, quasi fisicamente, le sofferenze che si patiscono lì». Per tante ragioni, ai ragazzi che incontra nelle scuole, Enaiatollah spiega che sono fortunati: «Perché vivono in un Paese in pace, perché possono studiare, quando in tanti villaggi afgani non si trova una sola persona in grado di leggere e scrivere». Mai l’ombra di autocommiserazione o rimproveri, ma solo il desiderio di aprire gli occhi su una realtà complessa.
Quanto all’Italia di oggi, il giovane afghano afferma di non sentirsi in alcun modo discriminato nella cerchia di persone che abitualmente frequenta sul lavoro o girando per la città. «Però appena accendo la Tv, a volte mi sento sopraffatto dai pregiudizi e dalle semplificazioni». E sa bene che certi modi di pensare hanno ricadute pesanti anche sul suo quotidiano. «Per esempio, ho presentato richiesta per la cittadinanza italiana pochi giorni dopo l’emanazione del Decreto sicurezza. Penso sia una legge per molti aspetti ingiusta. Nel mio caso sicuramente ha rallentato i tempi e moltiplicato la burocrazia». Ma alla fine è comunque la positività a prevalere. «Vivo circondato da persone belle, che non mi vedono come “l’afghano” o “il migrante” ma semplicemente come un amico».
Per il protagonista, come per l’autore, il libro ha rappresentato una svolta. «Confrontarsi con una storia vera è sempre molto difficile», riflette Geda. «Sono felice di essere stato un ponte, uno strumento capace di mettere in comunicazione la storia con i lettori». Tra le soddisfazioni «questo libro mi ha dato la possibilità di tornare a incontrare i ragazzi delle scuole, facendomi recuperare la mia precedente esperienza di educatore, che ha sempre avuto un peso determinante nella mia vita e che ovviamente traspare anche in ciò che scrivo».