Erik Gandini è un regista prezioso, per il suo punto di vista lucido e a volte spietato, capace di mostrare il mondo senza veli, a costo di costringerlo guardarsi allo specchio con brutalità. In Videocracy, nel 2009, ha anticipato l’Italia degli scandali odierni con sguardo lunghissimo e duro. E affrontato – da italo-svedese residente in Svezia da quando aveva 18 anni - con crudo realismo, non privo di ironia, l’immagine dell’Italia all’estero.
Che cosa dice della nostra immagine in Svezia lo scivolone di quel menu, per la percezione che ne ha un italosvedese residente a Stoccolma?
«In Svezia c’è una smodata passione per l’Italia, perché l’Italia ha tutto quello che la Svezia non ha, il clima, il cibo, la socialità. Ci sono programmi televisivi anche famosi, dedicati all’Italia. Ci sono un sacco di “italianofili” che, a prescindere dallo stereotipo di tutte le cose che non ci piacciono -la mafia, la politica, la corruzione -, mostrano verso l’Italia un affetto genuino e caloroso, non distante anche perché in Italia spesso molti vanno in vacanza. Sugli stereotipi culturali a volte si gioca sgradevolmente con grande superficialità, che però ascriverei alla responsabilità di un gestore di caffè non alla media del Paese. La Svezia non è fuori dal mondo, ha il mondo in casa: su 9 milioni di
abitanti 1,5 è composto da stranieri, le coppie in cui uno dei due è
nato fuori dalla Svezia sono il 20%. Ma fate bene a segnalare, è giusto che si capisca che effetto fa a chi vede, da italiano, una cosa così. Davanti al quel menu pensi: "ma come ti viene in mente, con tutti i film che avrai visto?"».
Appunto, anche documentari seri, seri forse come in Italia si vedono di rado…
«Gli svedesi viaggiano molto, hanno curiosità seria per il mondo, non sono isolati, forse il successo di produzioni Tv, come la Piovra o i Sopranos, spiega la fascinazione per certo misticismo cinematografico. È una cosa certamente triste, per me lo è molto, ma non mi allarma particolarmente perché nella mia esperienza capisco che quel menu non rappresenta gli svedesi. Che sono invece bene informati, anche per merito del giornalismo televisivo svedese».
Se dovesse sintetizzare la considerazione di cui gode l’Italia in Svezia, che termini userebbe?
«Schizofrenica, polarizzata: se da una parte lo svedese guarda con una giusta preoccupazione alla situazione economica e politica dell'Italia, dall’altra prova grande curiosità. Io vengo continuamente invitato dai media a parlare di Italia, c’è voglia di capire. Sarebbe molto peggio se ci si fermasse alla considerazione superficiale. Mi sono sempre preoccupato di scavalcare questa superficialità. Ci sono cose che per la Svezia sono incomprensibili, ma odio credere che lo svedese medio si riduca pensare “che pazzi questi italiani” e allora cerco di spiegare loro che il dibattito politico in Italia è esasperato e che un certo modo di fare Tv induce a usare parole forti».
Capita di far fatica a spiegare?
«Sì, ne ho avuta molta quando si è trattato di spiegare il trattamento riservato dalla Lega al ministro Kyenge. Anche perché è indifendibile. Ma è più difficile per uno svedese capire come possa un uomo delle istituzioni chiamare Bingo Bongo un ministro nero, di quanto non sia difficile per me e per lei capire quel piatto chiamato “cosa nostra”. È una questione di contesti. Il politico svedese non è costretto dal sistema mediatico, soprattutto televisivo, a usare parole fortissime, a ridurre tutto a dramma e a scontro. Al politico non è chiesto di essere intrattenitore ma di essere affidabile, uno svedese capisce meglio un Monti di un Grillo. Ma se devi spiegare un Paese a un altro devi far capire che nessuno è pazzo, ma sono tutti figli di un contesto, in cui è normale così».
Forse possiamo discutere di come abbia potuto un Paese democratico europeo, l’Italia, riconoscere come normali dentro di sé certi linguaggi…
«Ecco sì, e credo che anche quel nome “cosa nostra”, usato così male, si possa indirettamente ricondurre all’abitudine di certa politica italiana a minimizzare i propri scandali - si pensi al caso Ruby - ridendoci sopra. Ma mimimizzare tutto è un rischio. Bisognerebbe, invece, ricordare, più spesso anche da italiani, che sulle cose serie e gravi, accadute davvero, non si dovrebbe scherzare».