Giuseppe Pericu era il sindaco di Genova nei giorni drammatici del G8, vent’anni fa. Oggi denuncia le pesanti responsabilità politiche del Governo nazionale per l’organizzazione del summit, la vittoria della violenza sulle idee, della forza brutale e irrazionale sul dialogo e la proposta. Pericu fu il primo fra tutti gli uomini delle istituzioni ad avere il coraggio, dopo la morte di Carlo Giuliani, di uscire dalla zona rossa, in corso Italia e a Foce, Brignole, Marassi.
«Negli ultimi giorni, prima del G8», confessa oggi il professore, «emerse una minaccia, proveniente dai servizi segreti, di un possibile intervento di Bin Laden. Questi profili sembrarono avanzati, anche se è difficile provare una loro fondatezza, anche se poi sarebbe arrivato l’11 settembre. In ogni caso le misure di sicurezza dovevano essere leggere, molto simili a barriere di una corsa ciclistica. Invece furono predisposte misure incoerenti, con grate altissime che impedirono l’accesso alla zona rossa, ovvero al centro storico della città». Pericu ricorda la catena di errori e orrori che hanno trascinato nell’oblio «i temi e i fenomeni denunciati dal movimento contro la globalizzazione selvaggia, che erano e sono delle grandi sfide ancora in atto per l’eliminazione del debito, le lotte alle disuguaglianze, alla povertà, la regolamentazione del fenomeno migratorio, la tutela dei diritti umani fondamentali e la lotta contro la cultura della violenza e della guerra. Sfide che istituzioni internazionali e nazionali faticano a governare».
Giovanni Mari nel 2001 era un giovane cronista de Il Secolo XIX, aveva seguito sia il movimento in tutte le sue articolazioni che si muoveva verso Genova, dalle Tute Bianche di Luca Casarini al Social Forum di Vittorio Agnoletto, e i tanti gruppi nonviolenti e operatori di pace del mondo del volontariato e religioso, sia la costruzione del vertice internazionale nella sua dimensione logistica e organizzativa. Dopo due decenni ha scritto un saggio approfondito e senza reticenze sui fatti del G8: Genova vent’anni dopo (People edizioni). «Fallirono tutti: i capi di Stato e i manifestanti, i Governi, la politica, le forze dell’ordine, strategia, tattica lasciando alla catena di comando le scelte scellerate che portarono alle pagine piene di vergogna come l’assalto alla scuola Diaz e la sospensione dello Stato di diritto nel penitenziario di Bolzaneto, i media, soprattutto l’intelligence che non si accorse dei segnali o non fu in grado di farsi ascoltare».
Il mondo cattolico non fu spettatore distaccato del G8. L’impegno della Chiesa e delle altre confessioni e religioni fu coraggioso. Suor Patrizia Pasini era la rappresentante della Commissione di giustizia, pace e integrità del creato delle Congregazioni missionarie internazionali: «Organizzammo un G8 alternativo, nella chiesa di Boccadasse, tre giorni di silenzio e di digiuno, con persone di fede e in ricerca, laiche e distanti dalla fede. Un grande crocifisso con un Cristo campesino, che rappresentava poveri, oppressi, sfruttati. Mi ricordo l’incontro con Bertinotti, Mario Monicelli, don Andrea Gallo, tanti preti, suore e missionari».
Le fa eco Silvana Piccinini, Associazione amici di don Piero Tubino, che era nella Caritas di Genova: «La piazza tematica contro la cancellazione del debito e soprattutto la due giorni di preghiera e digiuno con rappresentanti di tutte le religioni che fece seguito all’incontro, più istituzionale, con il cardinale Dionigi Tettamanzi, arcivescovo di Genova, alcune settimane prima del G8 al Teatro Carlo Felice. Un clima costruttivo e nonviolento, come il corteo dei e per i migranti svoltosi giovedì 19 luglio 2001. Poi tutto è cambiato quando sono entrati in azione i black bloc».
Le parole di Raffaele Caruso, giovane di Azione cattolica e avvocato che fu volontario del Genova Social Forum. Nel suo diario di quei giorni G8 c’ero anche io. Un avvocato tra le barricate di Genova (Fog) racconta: «In quei giorni tremendi ho cercato di dare il mio contributo di uomo di legge e in difesa di donne e uomini pacifici aggrediti e massacrati di botte. Sono stato in piazza, ma anche alla Diaz e al carcere di Bolzaneto. Ho cercato di difendere manifestanti e prendere le ragioni della loro difesa contro il muro di gomma delle istituzioni, dal carcere alla Questura, ai vertici militari che avrebbero dovuto non mandare allo sbaraglio giovani carabinieri». Un episodio resta scolpito nella memoria di Caruso: «Il 20 luglio, il venerdì tra gico della morte di Giuliani, i black bloc attaccarono il carcere di Marassi e i carabinieri non riuscirono a impedire l’assalto, ma i devastatori risalirono velocemente la città arrivando in piazza Manin, dove c’era la manifestazione della Rete Lilliput che raccoglieva associazioni ambientaliste, pacifiste e cattoliche. Lì successe una cosa drammatica. I black bloc si infiltrarono e superarono la piazza tematica sull’economia equa e solidale, vennero inseguiti dai carabinieri che stavano cercando di fermarli. Quando arrivarono i carabinieri si trovarono di fronte i ragazzi della Rete Lilliput in una delle piazze tematiche, i quali subirono una carica a cui reagirono alzando le mani dipinte di bianco». Da allora processi, condanne, assoluzioni, prescrizioni, addirittura promozioni. Un senso di vuoto e di sconfitta ha animato il movimento buono e pacifico. «Una conquista è stata la legge contro la tortura, inserita nel nostro ordinamento giuridico. Un passo avanti», afferma Caruso, «figlio anche delle aberrazioni della Diaz e di Bolzaneto».
E le considerazioni di Alessandro Pilotto, del sindacato di Polizia della Cgil che visse quei momenti terribili, sono molto amare: «È stato sbagliato tutto. Non c’è stato un piano per risolvere i problemi, solo tanta incompetenza, arroganza, con una modalità di comando e azione senza logica. Sono stati mandati allo sbaraglio giovani agenti o militari acerbi senza formazione adeguata, carabinieri e poliziotti mandati allo sbaraglio. Un ragazzo si è ritrovato su una camionetta senza adeguata preparazione e ha sparato per paura. Le tante buone ragioni del movimento sono state spazzate via dalla logica manichea del “o con me o contro di me” senza alternative. Oggi come allora penso che l’importanza dell’educazione, della scuola dei valori umani e cristiani siano i soli antidoti perché la notte di Genova non si ripeta».
Le fa eco Silvana Piccinini, Associazione amici di don Piero Tubino, che era nella Caritas di Genova: «La piazza tematica contro la cancellazione del debito e soprattutto la due giorni di preghiera e digiuno con rappresentanti di tutte le religioni che fece seguito all’incontro, più istituzionale, con il cardinale Dionigi Tettamanzi, arcivescovo di Genova, alcune settimane prima del G8 al Teatro Carlo Felice. Un clima costruttivo e nonviolento, come il corteo dei e per i migranti svoltosi giovedì 19 luglio 2001. Poi tutto è cambiato quando sono entrati in azione i black bloc».
Le parole di Raffaele Caruso, giovane di Azione cattolica e avvocato che fu volontario del Genova Social Forum. Nel suo diario di quei giorni G8 c’ero anche io. Un avvocato tra le barricate di Genova (Fog) racconta: «In quei giorni tremendi ho cercato di dare il mio contributo di uomo di legge e in difesa di donne e uomini pacifici aggrediti e massacrati di botte. Sono stato in piazza, ma anche alla Diaz e al carcere di Bolzaneto. Ho cercato di difendere manifestanti e prendere le ragioni della loro difesa contro il muro di gomma delle istituzioni, dal carcere alla Questura, ai vertici militari che avrebbero dovuto non mandare allo sbaraglio giovani carabinieri». Un episodio resta scolpito nella memoria di Caruso: «Il 20 luglio, il venerdì tra gico della morte di Giuliani, i black bloc attaccarono il carcere di Marassi e i carabinieri non riuscirono a impedire l’assalto, ma i devastatori risalirono velocemente la città arrivando in piazza Manin, dove c’era la manifestazione della Rete Lilliput che raccoglieva associazioni ambientaliste, pacifiste e cattoliche. Lì successe una cosa drammatica. I black bloc si infiltrarono e superarono la piazza tematica sull’economia equa e solidale, vennero inseguiti dai carabinieri che stavano cercando di fermarli. Quando arrivarono i carabinieri si trovarono di fronte i ragazzi della Rete Lilliput in una delle piazze tematiche, i quali subirono una carica a cui reagirono alzando le mani dipinte di bianco». Da allora processi, condanne, assoluzioni, prescrizioni, addirittura promozioni. Un senso di vuoto e di sconfitta ha animato il movimento buono e pacifico. «Una conquista è stata la legge contro la tortura, inserita nel nostro ordinamento giuridico. Un passo avanti», afferma Caruso, «figlio anche delle aberrazioni della Diaz e di Bolzaneto».
E le considerazioni di Alessandro Pilotto, del sindacato di Polizia della Cgil che visse quei momenti terribili, sono molto amare: «È stato sbagliato tutto. Non c’è stato un piano per risolvere i problemi, solo tanta incompetenza, arroganza, con una modalità di comando e azione senza logica. Sono stati mandati allo sbaraglio giovani agenti o militari acerbi senza formazione adeguata, carabinieri e poliziotti mandati allo sbaraglio. Un ragazzo si è ritrovato su una camionetta senza adeguata preparazione e ha sparato per paura. Le tante buone ragioni del movimento sono state spazzate via dalla logica manichea del “o con me o contro di me” senza alternative. Oggi come allora penso che l’importanza dell’educazione, della scuola dei valori umani e cristiani siano i soli antidoti perché la notte di Genova non si ripeta».