Mercoledì sera è salito sul palco dell’Ariston per suonare e raccontare la sua storia commuovendo tutti. A una violinista dell’orchestra che l’ascoltava è scesa una lacrima per l’emozione. Forse è l’immagine più bella di questo Festival. Ha emozionato tutti, il maestro Ezio Bosso. Da anni lotta contro una malattia neurodegenerativa che non gli ha tolto la voglia di vivere e di esibirsi. È stata una lezione di ironia, coraggio, talento. «La musica è come la vita, si può fare in un solo modo, insieme», ha detto alla fine. La platea dell’Ariston gli ha tributato una standing ovation. La più bella, la più meritata.
Ecco l’intervista che il maestro ha rilasciato a Famiglia Cristiana:
Che cosa si nasconde in un brano musicale? La domanda sorge spontanea ascoltando The 12th Room (La dodicesima stanza, Egea), il nuovo doppio album di Ezio Bosso, oppure partecipando – sì, partecipando, e capirete perché sia giusto usare questo verbo – ai suoi concerti. A dare la risposta è la sua musica, nella quale ogni nota è un viaggio verso la profondità, vibra di luce e oscurità, narra di cadute e risalite, testimonia paure e dischiude speranze. Nella sua musica si sente palpitare la vita intera, ancor più da quando il pianista e compositore ha subìto un intervento al cervello e convive con una malattia autoimmune e degenerativa…
Forse è stata proprio questa pienezza di vita a far sì che le composizioni di Bosso siano fra le più richieste dal cinema (sue le colonne sonore dei film di Salvatores), dalla danza, dal teatro. Nonostante suoni da quando aveva quattro anni e abbia scritto decine di partiture, The 12th Room è incredibilmente la sua prima uscita discografica. Un’occasione unica per avventurarsi con lui nel regno delle “stanze”.
Che cos’è per te la “stanza”?
«È stata una rivelazione. Come indica il suo etimo, signica affermarsi, prendere coscienza. Noi cerchiamo sempre la stanza: le due parti più importanti sono affermazione e libertà».
Che sembrerebbero in contrasto fra loro…
«In realtà affermarsi è un gesto di libertà estrema, perché significa accettare sé stessi e quindi l’altro per la ricchezza che porta».
La tua musica allude a esperienze di “buio”, di assenza di musica. Fai capire che costituiscono occasioni non solo di privazione, ma anche di rivelazione…
«Sono parte della nostra esperienza. Per me non esistono storie brutte o belle, esistono storie: dolorose, gioiose, allegre, tristi… Ho imparato a vivere il problema come un’opportunità. A volte il buio ti pervade completamente, ti abitui al fatto che non c’è la luce. Di lì, però, si origina qualcosa d’altro: ogni esperienza che ci tocca come essere umani, dolorosa o meno, ci conduce a imparare qualcosa. A liberarci dal pregiudizio di essere menomati e a percepirci come un’identità. Il nostro corpo, che è sempre più intelligente, lo impara prima di noi. Quando mi sono trovato a vivere in questa stanza buia, allora ho cominciato a chiedermi che cos’era».
Sei compositore e interprete. In che modo le esperienze di vita cambiano la musica?
«Da quando siamo bambini non cambiamo i nostri occhi. La musica è così: esprime quel che siamo, evolvendo con il nostro crescere. Nel mio caso, è cambiato anche il mio modo di percepire, di ascoltare, di suonare, perché ora devo farlo restando quasi in piedi. A detta dei miei colleghi, suono molto meglio ora: prima ero come un animale selvaggio, adesso ho una coscienza diversa. D’altra parte ascoltare Glenn Gould quando aveva 20 o 55 anni non è lo stesso: senti sempre quel suono che è suo, ma cogli anche sfumature diverse, perché dentro ogni nota mettiamo tutta la vita che abbiamo vissuto. In questo, la musica che io amo non è quella del sé, bensì quella che trascende noi stessi».
La musica conduce oltre sé stessi?
«La musica ci impone di studiare, per tutta la vita si possono riprendere gli stessi brani e imparare qualcosa di nuovo… La musica ha svelato aspetti di me stesso che non conoscevo. Lo stesso accade nell’ascolto, grazie al quale perdiamo un pezzo di noi per acquisire un pezzo degli altri. Penso che chi ascolta sia un musicista: io suono sempre con il pubblico. Suonare è un atto di generosità reciproco, uno spazio condiviso».
Presentando la Sonata del secondo Cd, hai scritto: «È come se mi fossi addormentato, mi sono svegliato ed era di fronte a me sulla carta. Poi ho impiegato quattro mesi per imparare a suonarla».
«Io la vivo così, il musicista è un conduttore di qualcos’altro. Quando mi chiedono come si fa a scrivere un brano, rispondo che non lo so. Ho la tecnica, la memoria delle forme, dopodiché ciò che scrivo non lo so. E quando ho finito, non è più mio, devo studiarlo, e affronto il compositore peggiore, me stesso. Questa è la responsabilità del musicista. Mi soffermo per ore su una nota. Una volta ero veloce a scrivere, componevo in aereo, per terra; ora è difficoltoso, più che suonare. E anche questo fa sì che la Sonata sia il brano più importante della mia esistenza: tutta la libertà che mi sono guadagnato, giuro che l’ho messa lì dentro. Dentro quella forma».
A margine del brano d’apertura del tuo primo Cd, scrivi che per imparare bisogna perdersi, lasciare i pregiudizi e le paure...
«Se io voglio seguire, devo perdermi. Questo ci fa paura, perché siamo fragili. Abbiamo dato un’accezione negativa all’atto del perdersi, mentre è utile, perché ci porta a guardarci intorno. Ti perdi e incontri l’altro da te. Come quando visiti una città, ti smarrisci e cominci a chiedere… Il principio dell’empatia è perdersi. Se stai fermo, non ti perdi di sicuro, ma nemmeno trovi nulla. Bisogna lasciare che la novità sia parte di noi, che ciò che abbiamo non sia una gabbia. Solo così impariamo. Solo così siamo liberi».
Scriverai ancora per il cinema?
«Salvatores mi disse: voglio la tua musica nel mio film, non che tu faccia una musica da film. È stata una bella esperienza lavorare con lui, ma non sono un musicista da cinema».