In quest’estate 2021 i riflettori sono stati a lungo puntati sul mondo dello sport. Le Olimpiadi e gli Europei di calcio hanno emozionato il grande pubblico e hanno riproposto il meglio dei valori dell’agonismo: impegno, sacrificio, collaborazione, integrazione, capacità di rialzarsi dopo le difficoltà...
Sono valori che il ciclista Fabio Aru conosce bene, lui che è stato campione alla Vuelta di Spagna nel 2015, ha conquistato il quinto posto al Tour De France e il titolo nazionale nel 2017 e soprattutto è il primo sardo e quarto italiano in assoluto – dopo Felice Gimondi, Francesco Moser e Vincenzo Nibali – ad aver indossato la maglia rosa del Giro d’Italia, la gialla del Tour e la rossa della Vuelta.
Ma Fabio ha conosciuto anche periodi difficili come gli ultimi tre anni con la maglia della squadra Uae Emirates, fino al recente approdo al team Qhubeka Assos. Dal ciclismo professionistico ha imparato tante cose, ma una prevale nettamente sulle altre: «La vita di uno sportivo è fatta di vittorie e sconfitte, ma la fede è tanto importante nelle prime quanto nelle seconde. Non ci si appella a Dio solo nel momento della difficoltà, ma occorre ricordarsi di quello che ci dona anche quando le cose vanno bene, anche quando pensiamo che il successo sia normale». Il ciclista, nato in Sardegna, a San Gavino Monreale, 31 anni fa, non nasconde quanto la devozione sia stata importante nella sua vita, per poter superare le difficoltà e affermarsi con grinta e determinazione in uno sport nel quale senza fatica e sudore non si va da nessuna parte.
Con la pandemia che negli ultimi 12 mesi ha sconvolto il calendario delle gare e dopo un periodo meno appagante, Aru preferisce ripartire ricordando l’incontro con papa Francesco all’udienza generale, 13 febbraio 2019, occasione nella quale il campione ha donato al Pontefice la sua bici da corsa. «Un’emozione indescrivibile!», confessa. «Non è come vederlo in tv. Averlo davanti a me ha rappresentato qualcosa di eccezionale che ricorderò per sempre. Essendo cresciuto in una famiglia cattolica, per me questo incontro è stato la migliore esperienza che potessi fare. L’anno precedente, in una tappa della Vuelta, ero caduto a 70 chilometri all’ora. Siccome tutto andò bene, non potevo che ringraziare Dio così, anche quando il professionismo ci allontana dalla possibilità di praticare con costanza».
Oggi Fabio vive insieme alla compagna e alla figlia a Lugano, in Svizzera, dopo essere stato per lungo tempo a Bergamo. Nonostante la distanza, è la nonna materna, quando il ciclista ha modo di vederla in quel mese l’anno che riesce a trascorrere in Sardegna, a ricordargli sempre le origini isolane e la devozione, soprattutto per santa Barbara, patrona di Villacidro, il paese nel quale è cresciuto e dove ha ricevuto i sacramenti. «Nonna Lina è stata fondamentale per me, sin da quando ero piccolo. Per un atleta sardo è difficile emergere anche per il legame, bellissimo e nostalgico, con la Sardegna stessa. Lasciare quell’isola non è come lasciare un qualsiasi altro luogo. Ho pianto tante volte da quando sono andato via ma cerco sempre di ricordarle l’identità delle mie origini: sul casco, per esempio, non posso non tenere i Quattro Mori, il simbolo della Sardegna. Nella carriera, oltre alla fede, sono sempre state la grinta e la determinazione sarde a darmi la forza di andare avanti, anche nei momenti più bui».
IN BICI AL SANTUARIO
Per Aru la devozione non è solo un fatto di tradizione legato alla sua terra. «Per me il rapporto con Dio non conosce limiti di tempo né di spazio. Quando vivevo a Bergamo talvolta mi arrampicavo in bici fino al santuario della Madonna della Cornabusa, un luogo incastonato sul versante di un monte nella Valle Imagna. Sono tre chilometri di scalata molto ripida, ma per me arrivare lì ha rappresentato sempre un ottimo connubio tra dimensione spirituale e passione ciclistica, anche se spesso potevo trattenermi in quella grotta naturale solo per pochi minuti.
Non posso andare a Messa tutte le domeniche per via delle manifestazioni sportive che si svolgono sempre nel weekend, ma quando devo montare in sella conservo una mia serie di riti, dal segno della croce alle preghiere, affinché non mi accada nulla in strada. Prego, per dire, anche alla vigilia di una gara in una camera di albergo lontana da casa migliaia di chilometri». La scorsa primavera, Fabio ha deciso di recuperare la forma migliore attraverso il ciclocross, la sua prima e vecchia passione. E per il ciclismo su strada è passato alla Qhubeka NextHash. La squadra sudafricana conserva gelosamente l’insegnamento dell’ubuntu «I am if we are», “Io sono se noi siamo”, in un contesto formato da quasi trenta atleti di circa 17 nazionalità diverse. «Non ci sono leader, si corre per il bene della squadra», spiega Aru, che in questi giorni è impegnato alla Vuelta di Spagna con il ruolo di capitano della Qhubeka. L’obiettivo è essere protagonista nella gara in terra iberica, che proseguirà per 3.400 chilometri fino al 5 settembre, quando è in programma l’arrivo a Santiago de Compostela. Ma questa sarà l’ultima gara per Aru, che ha annunciato di volersi ritirare dal ciclismo professionistico. «È giunto il momento di dare la priorità ad altre cose nella mia vita, alla mia famiglia», spiega. «Spero di essere stato in grado di dimostrare i veri valori della sportività durante la mia carriera».
LA PRIMA MAGLIA A LOURDES
Cresciuto con il mito del ciclista spagnolo Alberto Contador e nel ricordo di altri campioni devoti a Dio come Fausto Coppi e Gino Bartali, Fabio ricorda l’aneddoto che forse riassume meglio il rapporto tra fede e ciclismo che vive intensamente ogni giorno. «La mia prima maglia da gara? L’ho comprata nel 2003, quando giocavo ancora a calcio e mentre mi trovavo a Lourdes con mia nonna e i miei genitori. Avevamo preso il traghetto a Olbia per raggiungere Genova e poi farci in macchina oltre 3 mila chilometri, tra la Costa Azzurra, Parigi e ovviamente il santuario, dove volevamo andare in pellegrinaggio. Avevo 13 anni, ma da quella maglia è cominciato tutto, in un luogo per me molto significativo. Costò dieci euro, ma la conservo ancora. Apparentemente un semplice episodio, ma dal quale ha avuto origine la mia carriera ed è così che oggi il mio lavoro sui pedali si basa anche sulla fede. Dal ritrovare la forza dopo una sconfitta o nelle salite più dure, all’essere sempre grato e al non dare per scontato niente di quanto riceviamo, anche quando la vita sembra una discesa facile da percorrere».