Eravamo da poco maggiorenni quando usciva, cinquanta anni or sono (1971, l'11 novembre) l’album di Fabrizio de André, ispirato all’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters. Una rivelazione per la mia generazione più indignata che annoiata. Quei tre "no" ci interpellavano e mettevano in moto le nostre celluline grigie, nella ricerca di un’esistenza autentica, che abbandonasse le appartenenze convenzionali per concentrarsi sull’essenziale.
Non al denaro, ovvero non al potere, idoli di ogni epoca e di ogni latitudine, sul cui altare tanto sangue si è versato e tanto se ne continua a versare. Non all’amore, come mito che, piuttosto che esprimere libertà, istituisce vincoli e legami, che rischiano di diventare vere e proprie prigioni. Non al cielo, nel senso che un’autentica esperienza religiosa non può non far proprio l’appello alla fedeltà alla terra, cui ci hanno richiamato Friedrich Nietzsche prima e Dietrich Bonhoeffer dopo.
Il giudice nano che non conosce la “statura di Dio” suggeriva una ribellione alla giustizia mondana, che troppo spesso crea vittime, in particolare oggi quando si esprime sui media piuttosto che nei tribunali, così come il chimico, che muore in un “esperimento sbagliato”, denuncia il limite di una scienza che non riesce a comprendere perché gli uomini «si combinassero attraverso l’amore, affidando ad un gioco la gioia e il dolore», in quanto l’alchimia del rapporto con l’alterità gli resta preclusa.
Ma l’inno alla libertà, che il suonatore Jones, già incontrato all’inizio, declama alla fine è non solo l’apice, ma il compimento del cammino che trova nel cimitero la sua meta. Lui «che offrì la faccia la vento e mai un pensiero non al denaro, non all’amore né al cielo» intravede la libertà nel fruscio delle vesti di una donna che danza, piuttosto che in un vortice di polvere. Quella libertà, che dorme nel campo spinato del denaro, dell’amore e del cielo, risorge ogni volta che si genera il suono, quella musica gratuitamente offerta al sinuoso muoversi delle ragazze che danzano o al ballo di un compagno ubriaco. I campi lasciati alle ortiche non generano alcun rimpianto, perché si è vissuto l’autentico.
Non ha tutti i torti Gilles Lipovtesky, quando denuncia la sacralizzazione dell’autenticità (Gallimard, Paris 2021), ma dal mio personale punto di vista il suo dardo non colpisce il bersaglio del cantautore genovese, proprio perché, in quella che non esito a intravedere come la sua profonda religiosità, non si rinviene alcun cedimento al “sacro” come comunemente inteso nella cosiddetta esperienza religiosa diffusa. Il precedente album La buona novella (1970) ci aveva lasciato col ladrone che “nel vedere quell’uomo che muore” ossia “nella pietà che non cede al rancore” dice alla madre di aver “incontrato l’amore”. E questo amore incondizionato non è oggetto del rifiuto da parte del chimico, ma la sua ricerca e la sua esperienza conferiscono piuttosto senso alla sua e alla nostra esistenza, nella misura in cui riusciamo a camminare “in direzione ostinata e contraria”.
Sapevamo, come ora sappiamo, che non bastano i no, pur necessari per un percorso ispirato dal bello, dal vero e dal bene. Sono un passaggio obbligato per i grandi "sì" che di volta in volta siamo chiamati ad esprimere di fronte alle interpellanze della vita e della storia. La memorizzazione e la ripetizione quasi maniacale delle canzoni di Faber ci ha educati e, in certo senso, ha contribuito a purificare le nostre attese, in modo che potessero rivolgersi ad un’autenticità non sacra o forse proprio perché non sacra, né religiosa in senso idolatrico e pagano, speriamo sia davvero credente. Il denaro/potere, l’amore, il cielo facilmente possono diventare idoli dai quali la fede ci libera: ed è questo il messaggio che emana da questo poetare in musica.