Aveva gambe esili e piedi delicati, privi di un importante cou de pied, eppure era Carla Fracci. Ovvero, la ballerina più internazionalmente nota,amata,riconosciuta come insuperabile modello dell' "italianità danzante" nel mondo. Il suo dominio d'elezione è stato il balletto romantico, che ha studiato nei minimi dettagli, consegnando la sua immagine di Giselle a un impressionante stuolo di affezionati spettatori. Un ruolo che non ha ancora visto eguali tra le maggiori étoiles anche odierne, certo in grado di superarla nella mera tecnica.
Ma la sua improvvisa morte obbligherebbe a ripensare questo ruolo,e più in generale il balletto, nei termini che lei stessa ha saputo dettare. Il suo segreto nel primo atto di Giselle, stava per esempio, nell' immergersi, anzi nel personificare la contadinella tradita che muore per amore con tutta se stessa, e con una naturalezza tale, da condurre inevitabilmente alle lacrime chiunque l'avesse ammirata nel momento della pazzia, in quella corsa folle e tragica che la portava tra le braccia della madre per poi soccombere a terra. Sembrava un dramma vero, e una morte più che vera. Così come nel secondo atto dello stesso balletto, Carla, in veste di risorta Willi, sapeva dettare la figura sognata dai Romantici del XIX secolo con incorporea leggerezza. Lei doveva essere il fantasma di una risorta tornata sulla terra per perdonare il suo traditore, e il suo corpo immediatamente diventava un corpo-non corpo, per come sapeva muovere il tutù e avvolgersi nel tulle, per come sapeva appoggiarsi lievemente al suo partner, o spronarlo a danzare, concentrata in un'aura del tutto spirituale dall'inizio alla fine di quell'atto .
Tante volte danzata quella Giselle - il suo signature pièce -, anche in età matura con Rudolf Nureyev, con il quale fece coppia in molti ruoli del repertorio, Carla non faceva mistero nel ribadire che il suo partner d'elezione, tra i tanti che ha avuto, era stato Eric Bruhn, in specie nella Sylphide, altro ruolo, storicamente precedente a Giselle, perfettamente calzante a quell'immerisione nel Romanticismo cui l'aveva instradata anche l'inseparabile Beppe Menegatti, il marito con cui ha condiviso la sua straordinaria carriera e vita. Ha danzato di tutto, calandosi persino nei panni di Isadora Duncan, e senza fallire mai. L'abbiamo vista, da bambina, trasformarsi in attrice, nel Verdi televisivo, fu una splendida, accorata Giuseppina Strepponi, quando di ritorno da New York dove fu étoile per l'American Ballet Theatre, decise col marito di presentarsi nei più remoti villaggi d'Italia, oltreché nelle grandi città, per far conoscere ovunque la danza e il balletto. L'abbiamo applaudita, da adolescente, in Filumena Marturano con il dono che per quel balletto Eduardo De Filippo le fece: la poltrona dell'adorata sorella Titina. Abbiamo scritto, da giovane, un libricino che vorremmo ri-pubblicare, che narra la sua avventura estiva con il poeta Eugenio Montale, amico carissimo, che per lei scrisse la poesia La danzatrice stanca, quando era incinta dell'unico figlio. Un viaggio lento, come di viandanti medievali, da Forte dei Marmi a Siena, per il Palio, che Carla amava. Come amava la vita, la famiglia, la sorella tante volte inserita nei suoi spettacoli, la nipote, il ricordo dei genitori, il leggendario padre tranviere.
Sempre vestita di bianco, il colore della purezza, magari con una collana di corallo a fare da contrasto; mi diceva che quei vestiti non erano acquistati in chissà quale boutique di moda, ma creati ad arte da una sua sarta che spesso riciclava vecchi pizzi. Sempre attorniata da artisti cui si affeziona davvero, Carla è stata l'epitome anche della grande tragédienne: l'abbiamo vista in Medea, in Romeo e Giulietta, ma anche nel triste Chéri di Colette/Roland Petit, affrontato nel 1996, dopo un'impressionante immersione in Fall River Legend di Agnes De Mille in cui impersonava la tragedia della pluriomicida Lizzie Borden. Possiamo dire che abbia diretto il Corpo di Ballo del Teatro dell'Opera di Roma, dal 2000 al 2010, pur sognando sempre di guidare una compagnia nazionale di balletto, trasformando soprattutto il Corpo di Ballo femminile in un cuore pulsante. E ricordiamo la sua lunga, interessantissima, programmazione di tutti o quasi i lavori dei Ballets Russes, incluse quelle petite pièces come La Chatte di George Balanchine, di cui molti direttori di compagnia non conoscono neppure l'esistenza. A Roma, fu inserita in uno Schiaccianoci nel ruolo secondario di una nutrice: non scorderemo mai come ad un certo punto cadde a terra. Di solito ballerine, anche capaci, prima di cadere, come fa una persona normale, sembrano telefonare al pubblico e dire: attenzione tra un secondo cado. Lei no, a quasi ottanta anni, cadeva, spaventandoti come chi precipita a terra d'improvviso. Ma torniamo al suo modo di intendere il balletto, più che a una cronaca che il lettore troverà ovunque. Carla che era pura luce e carisma dal busto in sù, e possedeva una voce vellutata "perché il corpo è tutt'uno", faceva grande differenza tra chi danza "spostando l'aria", cioè eseguendo semplicemente dei passi, e chi invece riusciva e riesce a restituire sulla scena sia il frutto di uno studio assiduo e quasi maniacale, di una ricerca di perfezione, sia la propria personalità, la propria unicità. Con vero coraggio, questa grande donna, davvero difficile da dimenticare, anche per la sua schiettezza, ha di recente tenuto una masterclass su Giselle, invitata da Manuel Legris, il direttore del Balletto scaligero. Così è tornata e già molto malata, nel teatro delle sue origini. Ancora un esempio di quanto fosse unica, come danzatrice, come persona Carla Fracci.
Marinella Guatterini
Docente di estetica della danza e critico.