Spulciando sul taccuino fitto di note dopo oltre un'ora di colloquio: «Non so parlare con le parole degli altri». «Tutti mi chiedono il quaderno autografato ma l'ho promesso solo al mio regista». «Non anticipo mai le domande anche se i miei interlocutori sanno che quando vado a incontrarli non parleremo dell'ultimo film di Woody Allen». «Le storie mi attraversano». «Rubo l'anima per poi restituirla». «Non tutti in carcere riescono a costruirsi un simulacro di vita». «Chi parla con me ha sempre un restauro d'immagine e una ricaduta sociale». «Nei casi di cronaca io vado in verticale perché mi prendo tutto il tempo per leggere e analizzare gli atti». «Generalizzare è sempre un crimine». «I tre verbi che frequento con più assiduità sono capire, dubitare, raccontare». «Scrivo come parlo, il mio non è un italiano di periferia». «La misericordia è fondamentale per la redenzione anche sociale di chi ha sbagliato». «Ho due amici intimi: padre Pio e papa Giovanni».
Anche stavolta Franca Leosini non ha deluso il suo interlocutore. La signora che ha disegnato la geografia del delitto italiano portando in Tv, dal 1994 ad oggi, la bellezza di novantotto Storie Maledette, è tornata in prima serata su Raitre per raccontare Che fine ha fatto Baby Jane?, il titolo del programma ripreso alla lettera dall'omonimo film del 1962 interpretato da Bette Davis e Joan Crawford. Nello studio televisivo, Leosini ripercorre la vicenda umana e giudiziaria del protagonista della puntata il cui volto viene svelato solo quando viene riportato al presente e inizia a raccontare il “secondo tempo” della sua storia dopo aver scontato la pena ed è tornato un uomo libero.
Al cospetto di questa giornalista, definita “l'Agatha Christie italiana”, sono sfilati secoli di condanne e ossessioni perverse, dichiarazioni ostinate d'innocenza e realtà parallele, abissi morali e moventi misteriosi, raptus di follia e misfatti covati a lungo. Nomi entrati nell'immaginario collettivo e sovente protagonisti anche al cinema. Come Patrizia Reggiani, la mandante dell'omicidio di Maurizio Gucci sul quale Ridley Scott sta girando un film con Lady Gaga. Angelo Izzo, l'ex ragazzo nero dei Parioli che nel 1975 con Andrea Ghira e Gianni Guido sequestrò e uccise Rosaria Lopez e devastò per sempre l'esistenza di Donatella Colasanti sul litorale pontino protagonisti del discusso film La scuola cattolica tratto dal romanzo di Edoardo Albinati. E ancora: Gigliola Guerinoni, la “mantide di Cairo Montenotte”. Marco Mariolini, il “collezionista di anoressiche” che ispirò a Matteo Garrone il film Il primo amore. Wanna Marchi («lei, con le sue creme dimagranti, è stata l'ossessione di generazioni di ciccioni ma chi è veramente: una perfida calcolatrice o un'emerita deficiente?»), Fabio Savi, il capo della banda della Uno Bianca, Donato Bilancia, Pietro Pacciani, Pino Pelosi, Rudy Guede, Luca Varani, Cosima Serrano e Sabrina Misseri. Giura che oltre quattro lustri in giro per le carceri italiane non l'hanno impressionata più di tanto: «Ho più paura di prendere un mezzo pubblico all'ora di punta che di un assassino».
Storie Maledette tornerà?
«Ho dovuto interrompere perché con le restrizioni attuali è impossibile entrare in carcere. La pandemia è imprevedibile ma non è detto che non torni».
Com'è nata l'idea di Che fine ha fatto Baby Jane?
«Mi frullava in testa da un bel po’. L'impossibilità di entrare in carcere ha fatto il resto. La fatica però è uguale. Come tutte le mie trasmissioni, studio a fondo gli atti del processo, la rassegna stampa e il “dicono di lui” del mio interlocutore. Sono autrice unica, scrivo da sola tutti i testi. Io non so parlare con le parole degli altri».

Franca Leosini durante la prima puntata di Che fine ha fatto Baby Jane? in onda su Raitre il 4 novembre scorso
Sui social il suo quaderno ad anelli è diventato un cult.
«Me lo chiedono in tantissimi, anche con l'autografo. L'ho promesso solo al mio regista».
Incontra prima i suoi interlocutori?
«Una sola volta prima dell'intervista. La regola inderogabile è che non anticipo mai le domande».
Non gliele ha mai chieste nessuno?
«Sì, anni fa. Era un caso complesso che avevo studiato per due mesi. Riguardava un uomo che aveva ammazzato tre persone. Quando andai in carcere per incontrarlo prima dell'intervista, pretese di conoscere le domande in anticipo. Fui irremovibile e dissi di no. Poi andai dal direttore di Raitre per comunicargli che avremmo avuto una puntata in meno».
Temeva di essere strumentalizzata?
«Sì. I miei interlocutori non conoscono quello che gli chiederò anche se sanno che non parleremo dell'ultimo film di Woody Allen. Rispetto le persone che affidano a me il proprio passato e anche il futuro però compromessi mai».
Perché parla di futuro?
«Chi parla con me ha sempre un restauro d'immagine e una ricaduta sociale».
Lei arriva sempre dopo, alla fine, quando è calato il sipario e la sentenza è già stata emessa o addirittura scontata. Un bene o un male per un giornalista?
«Un privilegio. I colori della cronaca sono sempre molto accesi. I colleghi che se ne occupano nell'immediatezza dei fatti hanno pochi elementi a disposizione e devono occuparsene in orizzontale. Io vado sempre in verticale e in profondità. I tre verbi che frequento con più assiduità sono: capire, dubitare, raccontare. Una sera ero a cena con alcuni magistrati e dissi: “Io studio gli atti come li studiate voi”. E loro mi hanno risposto: “Come noi? Molto più di noi”».
Il primo caso che ha affrontato in Storie Maledette?
«Quello di Rosalia Quartararo, condannata nel 1994 all'ergastolo per aver ammazzato per gelosia la figlia di 18 anni, Maria Concetta Romano. La ragazza aveva una relazione con un guardiacaccia di oltre 30 anni più grande di lei, sposato e nonno di due nipoti. Per poterlo frequentare più agevolmente lo invitava a casa dicendogli di farsi vedere interessato alla madre. Lui ha seguito il percorso di corteggiamento ma, alla fine, anche la signora Rosalia si era invaghita di quell'uomo e, vedendo nella figlia una rivale, la uccise a bastonate per poi nascondere il cadavere in una roggia della Bassa Lodigiana. È uno dei casi che ricordo con grande pena. Le storie mi attraversano».
Ha mai pianto?
«Qualche volta sì, a telecamere spente. Non mostro commozione in video perché non è giusto, né opportuno».
In quali casi?
«Niente nomi. La pietas non tollera discriminazioni».
Ha mai avuto paura?
«Sì, quando intervistai Marco Mariolini. A un certo punto gli feci una domanda scomoda che lo colpì dritto al cervello e al cuore. Lui cominciò a ondeggiare pericolosamente sulla sedia. Ho avuto la sensazione che potesse saltarmi addosso e farmi del male».

Franca Leosini al Ninfeo di Villa Giulia a Roma per il Premio Strega 2018 (Ansa)
Lei ha girato quasi tutti i penitenziari italiani. Crede nella funzione riabilitativa della pena?
«Generalizzare è sempre un crimine. Ci sono strutture carcerarie che offrono tante ottime occasioni di riabilitazione e redenzione, dalla possibilità offerta ai detenuti di lavorare all'esterno in permesso premio ai corsi di formazione. I direttori delle strutture più piccole, di provincia fanno molta più fatica perché hanno meno mezzi. Dirigere un carcere è un mestiere difficilissimo, ho grande rispetto e ammirazione per queste persone».
Ma la detenzione riabilita?
«Il carcere è anzitutto privazione di libertà e pena ed è giusto che sia così per rispetto delle vittime e per una tutela sociale. Anche se le strutture mettono a disposizione dei detenuti psicologi, sacerdoti, che svolgono un lavoro encomiabile, volontari e insegnanti, la riabilitazione è sempre un percorso interiore e una scelta individuale. Ci sono persone che non sopportano di stare dietro le sbarre e danno di matto e altre che riescono a costruirsi un simulacro di vita e a sopravvivere anche dal punto di vista psicologico».
La vicenda di Filippo Addamo, che ha raccontato nella prima puntata di Che fine ha fatto Baby Jane?, ha mostrato chiaramente cosa significa il carcere come riabilitazione con l'albergo sull'isola di Pianosa, all'Elba, affidato ai detenuti di Porto Azzurro.
«Addamo ha compiuto un percorso virtuoso dopo aver commesso un crimine terribile per il quale è stato condannato a diciannove anni di carcere. Adesso ha una compagna e un figlio piccolo, è giusto che si rifaccia una vita anche se l'omicidio della madre non va dimenticato. La sua famiglia non l'ha mai abbandonato. Mi ha colpito molto quando ha raccontato di aver riconosciuto tutti i suoi parenti durante il primo pranzo di famiglia dopo l'uscita dal carcere».
Come ha trascorso il lockdown?
«Approfittando per leggere qualche libro in più e preparare la puntate del nuovo programma. Sono una doverosa lettrice accanita».
Cosa sta leggendo adesso?
«Venuto al mondo di Margaret Mazzantini; le novelle di Pirandello, un autore per me fondamentale che sento sempre presente e Qualcosa di scritto, il libro di Emanuele Trevi (vincitore del Premio Strega 2021, ndr) su Pier Paolo Pasolini».
Un delitto di cui lei ha contribuito a riaprire le indagini dopo le interviste a Pino Pelosi. Come andò il primo incontro?
«Era il 2005, facevo Ombre sul giallo. Lui mi chiamò dicendomi che mi voleva parlare in segreto. Ci vedemmo in un bar di periferia come amanti clandestini. Mi disse che essendo morti i genitori non aveva più paura che fossero ammazzati per le sue rivelazioni. Dunque voleva dirmi la verità per far sì che il figlio non lo credesse un assassino. Mi raccontò che era andato in quello sterrato, poi erano intervenute altre persone che avevano tenuto fermo lui e massacrato Pasolini. Più volte gli ho chiesto di liberarsi ma credo che lui non abbia mai detto tutta la verità».
Una volta mi disse che c'è un episodio quasi mistico della sua vita che riguarda padre Pio e che mi avrebbe raccontato. È arrivato il momento?
«Ancora no».
Lei crede in Dio?
«Sì ma non sono una baciapile. La mia fede è come quella della Bohème di Puccini: “Non vado sempre a messa / ma prego assai il Signor”. La sera non mi addormento mai senza dire una preghiera. La fede finisce per essere quasi un egoismo, nel senso che ti aiuta molto. È un rifugio dell'anima e una speranza. Mi piace entrare in chiesa quando non c'è nessuno al tramonto, con una vecchina che sgrana il suo rosario o un prete che confessa. Grazie a quel silenzio e quell'atmosfera è come se stabilissi un rapporto diretto con il Padreterno».
Papa Francesco l'ha conosciuto?
«No, mi piacerebbe molto incontrarlo di persona. È una figura straordinariamente umana. Molto coraggiosamente ha incentrato il suo pontificato sulla misericordia che è fondamentale per la riabilitazione dei miei interlocutori che non sono professionisti del crimine ma che, a un certo punto della loro vita, sono caduti nella trappola di una maledetta storia».
I suoi fan, i leosiners, impazziscono per il suo linguaggio.
«Scrivo come parlo. Mi sembra di parlare un italiano non da periferia. E poi, come diceva Nabokov: “Puoi sempre contare su un assassino per una prosa ornata”».